FOTOGRAFIA»GLI SCATTI DI LUCA PRESTIA

BOLZANO. «Che cosa sappiamo veramente dei confini, noi cittadini europei muniti di passaporto? Per noi, viaggiare attraverso l’Europa, soprattutto nell’area Schengen, significa potersi muovere...


di Giovanni Accardo


BOLZANO. «Che cosa sappiamo veramente dei confini, noi cittadini europei muniti di passaporto? Per noi, viaggiare attraverso l’Europa, soprattutto nell’area Schengen, significa potersi muovere liberamente da un Paese all’altro senza neppure dover mostrare un documento. Oltrepassiamo i confini senza nemmeno rendercene conto. Ma se arrivassimo dal Mali, dal Gambia, dal Sudan, dall’Eritrea, quasi ovunque troveremmo alti muri, pesanti barriere, porte sbarrate. Paradossalmente nell’Europa che si vantava di avere abolito le frontiere, abbiamo assistito non solo a un loro ritorno ma addirittura alla loro spettacolarizzazione». Con queste parole Federico Faloppa, docente di sociolinguistica all’Università di Reading, studioso degli stereotipi etnici e della costruzione linguistica della “diversità”, presenta la mostra “Beyond The Border” del fotografo Luca Prestia, inaugurata il 21 dicembre scorso al Centro Trevi di Bolzano, su iniziativa della Fondazione Langer e di Antenne Migranti. Già dopo le “primavere arabe” del 2011 in molti paesi dell’Unione Europea era scattato l’allarme migranti, con il ripristino dei controlli alle frontiere. La Francia, poi, con la crisi dei rifugiati del 2015, esplosa con la guerra in Siria, ha sospeso unilateralmente il trattato di Schengen, facendo del confine di Ventimiglia una frontiera militarmente presidiata e invalicabile. Proprio qui il fotografo Luca Prestia, che negli ultimi anni ha concentrato la sua ricerca fotografica sul paesaggio e la sua relazione con la mobilità delle persone e i processi migratori, ha puntato il suo obiettivo, attraverso diversi soggiorni per documentare cosa succede quando la frontiera viene abbandonata da giornalisti e televisioni. In quest’area alcuni attivisti italiani e francesi nel giugno del 2015 avevano costruito il campeggio NoBorder, punto di ritrovo dei migranti che intendevano passare dall’altra parte, sgomberato dalla polizia a settembre 2015. Dopo gli attacchi terroristici che hanno insanguinato Parigi il 13 novembre 2015, le autorità francesi hanno intensificato i controlli, rendendo il confine invalicabile per chi non ha documenti validi. Se nei momenti di crisi, con la folla che preme, il confine diventa luogo spettacolarizzato, dopo la crisi il confine non sparisce, rimane, lascia tracce delle presenze umane. «Luca - ci spiega ancora Federico Faloppa - «con la sua fotografia desaturata, dove la sottrazione si fa scelta narrativa, non vuole farci sobbalzare con immagini drammatiche e colori forti che suscitino pietà o risentimento. Il suo è un approccio meno emozionale e più logico, quindi politico. Infatti ricorre alla sineddoche, cioè riprende una parte per significare il tutto, un oggetto per la storia che potrebbe raccontare, spingendoci ad allargare il nostro punto di vista, come se osservassimo per la prima volta qualcosa a cui non abbiamo mai fatto veramente caso, su cui non ci siamo veramente soffermati». Le foto, infatti, ritraggono, dettagli, parti di corpo umano: un braccio, un piede, un paio di vecchie scarpe abbandonate, degli spazzolini da denti e poi i piloni del cavalcavia sotto cui spesso si accampano i migranti che tentano di entrare in Francia e poi raggiungere l’Inghilterra. «C’è un sentiero in particolare che ho voluto fotografare - racconta Luca Prestia - il cosiddetto “Passo della morte”, lo stesso da dove, durante la seconda guerra mondiale, passavano gli ebrei in fuga, cercandovi le tracce delle presenze umane. Poiché lungo questo sentiero è facile morire, cadendo in un burrone o finendo nell’autostrada, dove si viene travolti dalle auto, qualcuno ha messo una segnaletica illegale per aiutare i migranti in fuga ad orientarsi. Ecco, ci sono, ad esempio nella valle del Roja, il fiume che divide Italia e Francia, diverse forme di accoglienza illegale o non ufficiale, c’è una ragnatela di famiglie che ospita migranti nelle loro case. E ci sono persone, come don Rito Alvarez, che, quando ha visto l’orribile spettacolo di centinaia di persone fuggite dalla guerra e dal terrore, scampate ai viaggi della morte attraverso il Mediterraneo, che dormivano sotto i ponti della superstrada, sul greto del torrente, nascosti nelle tubature degli scarichi, ha deciso di accoglierli nella sua parrocchia. D’altronde anche lui è un profugo, scappato dalla Colombia per sfuggire ai narcotrafficanti». In questi giorni e dopo l’ennesima tragedia nel Merditerraneo, interrogarsi sulle domande che queste foto pongono, ci pare quanto mai necessario.

La mostra resterà aperta al Centro Trevi fino al 31 gennaio, l’ingresso è libero.













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