IL LIBRO

I libri di Jakub, profeta hippy ante litteram


Marco Pontoni


Leggere “I libri di Jakub”, pubblicato in Italia per Bompiani alla fine del 2023 (trad. Barbara Delfino, Ludmila Ryba) vuol dire partire per un lungo viaggio, e siccome i romanzi della premio Nobel Olga Tokarczuk hanno spesso a che fare con i viaggi, tutto si tiene. Il lettore lo sappia: se inizia a leggere, si imbarca in un’impresa lunga oltre 1100 pagine, un’epica cavalcata “attraverso sette frontiere, cinque lingue e tre grandi religioni, senza contare quelle minori”, come recita la stessa copertina. Il tutto in uno spazio europeo-balcanico-mediorientale che va dalla Polonia alla Turchia, e dalla Germania alla Grecia, in un’epoca, la seconda metà del 700, ormai a noi lontana.

A parte questo, però, il romanzo, uscito originariamente nel 2014, non presenta difficoltà di lettura particolari. Non assomiglia ad esempio a “I vagabondi”, altro libro di Tokarczuk, fra i primi ad essere stato pubblicato in Italia, con le sue storie frante, non concluse, i suoi salti temporali, le sue ossessioni macabre. “I libri di Jakub” è un magnifico affresco con al centro un personaggio storico realmente esistito, Jakub Frank, messia ebraico di origini polacche, erede degli insegnamenti di Sabbatai Zevi, altro messia vissuto però a Smirne 100 anni prima di Jakub, fondatore di una corrente eretica “antitalmudista”, che rifiutava cioè gli insegnamenti dell’ortodossia ebraica, e proclamava la necessità di una completa “sovversione dei valori”, fino ad abbandonare l’ebraismo per l’Islam.

Anche Jakub propone ai suoi seguaci la stessa cosa, in parte per mettersi al riparo dalle rappresaglie dell’ebraismo tradizionalista. Dapprima predica la necessità di convertirsi alla religione musulmana, e in un secondo tempo addirittura al cristianesimo, chiedendo a chi lo segue di battezzarsi e accettare il dogma della trinità. Non è l’unica delle capriole a cui Jakub sottopone la sua esistenza, e quella dei suoi numerosi seguaci. Agli occhi di noi lettori del XXI secolo, questo predicatore instancabile, vitale, spregiudicato, ipercinetico, fumatore di hashish, smodatamente sensuale, appare come una sorta di profeta hippy ante litteram, creatore di società comunitarie in cui tutto viene condiviso, a partire dalla vita sessuale, dai figli e dai beni (sì, qualcuno è autorizzato a pensare al kibbutz). Società comunitarie, affascinanti, ma sempre sul punto di essere distrutte dai poteri costituiti: il libro racconta persino un episodio del tutto simile a quello del Simonino da Trento, un processo intentato agli ebrei per un presunto omicidio rituale, con relative confessioni estorte sotto tortura.

I personaggi di questo libro sono impegnati in pari misura a commerciare – in sostanza l’unica attività che era concessa agli ebrei a meno di convertirsi, e poter accedere quindi al possesso della terra – e a dibattere incessantemente sulle questioni di carattere religioso: gli insegnamenti delle Scritture, l’avvento del nuovo Messia, persino la sua natura (femminile dichiara Jakub ad un certo punto, mettendo in discussione un altro dogma). Al centro di questo vagare, di questo metter su casa e disfarla, di questo parlare, amare, confrontarsi con il mondo esterno, sempre Jakub, il cui cammino lo porterà persino a conoscere i potenti dell’epoca, come l’imperatore Giuseppe II d’Asburgo-Lorena e il futuro zar russo Paolo I. Seguirlo lungo queste pagine è uno sforzo che ripaga, anche se a volte estenuante.

In Polonia, dopo la sua uscita, il libro è stato criticato, soprattutto dalla destra nazionalista, che evidentemente non ha mai fatto i conti fino in fondo con il suo modo di trattare gli ebrei e le minoranze in generale. “La cultura polacca è fortemente interconnessa con la cultura ebraica – ha sottolineato Tokarczuk, - siamo un particolare crogiolo culturale nel quale molte tradizioni, concetti, convinzioni, idee si sono mescolati, creando una nuova qualità. Anche se a qualcuno questo può non piacere”. In realtà vale per tutti i paesi, e tutte le culture.

 













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