Perché si ammazza un’aquila 

Ambiente e società. A Gais un esemplare ucciso sul nido mentre covava, ma non è un caso isolato. Nel 2018 un secondo episodio in Val d’Ultimo Il tecnico Thomas Clementi: «Paghiamo un clima di ostilità verso i predatori». Paolo Pedrini del Muse: «In Trentino? L’ultimo caso 26 anni fa»


Mauro Fattor


Bolzano. «Quando domenica 16 maggio mi ha telefonato Markus Kaiser, il guardiacaccia di Gais, chiedendomi se era possibile che l’aquila fosse immobile al nido da otto ore, ho avuto un tuffo al cuore e gli ho detto di no. Non era possibile». Così Thomas Clementi, il tecnico faunistico che dal 2003 studia e monitora la specie in Alto Adige prima per conto dell’Ufficio Caccia e Pesca della Provincia e oggi per l’Ufficio Natura, sempre dell’amministrazione provinciale. Il resto è cronaca di questi giorni. Un esemplare adulto di aquila impallinato nel nido, a pochi giorni dalla schiusa di due uova, con i piccoli ormai perfettamente formati. Un colpo a palla che ha trapassato l’animale da parte a parte. Bingo, per lo sparatore: tre aquile uccise con un colpo solo. Avrà fatto festa.

L’episodio di bracconaggio è stato prontamente denunciato dal presidente dell’Associazione Cacciatori Alto Adige, Günther Rabensteiner, che l’ha bollato con decisione come un “fatto intollerabile”. La stessa associazione, del resto, contribuisce ogni anno alla raccolta dati e alla sorveglianza dei nidi attraverso la rete dei guardiacaccia coordinati dal biologo Lothar Gerstgrasser. Vale la pena di ricordare che la specie è tutelata già dalla metà degli anni ’70 e dunque, in situazioni di vincolo così consolidate, episodi del genere fanno doppiamente male. «Ci sono ancora indagini in corso - spiega Clementi - ma non è difficile capire come siano andate le cose lì a Gais, all’imbocco della Val Aurina. Il nido si trova in una valletta laterale su una modesta parete di roccia. Proprio sul versante di fronte, alla stessa altezza, corre una strada forestale e c’è un’altana per la caccia agli ungulati. Basta parcheggiare, si fanno due passi, si appoggia il fucile e bum. Finito. Un colpo facile, sono meno di trecento metri in linea d’aria. La caccia è aperta dall’8 maggio e tutto quello che possiamo dire è che certamente quell’animale pochi giorni prima del 16 maggio era ancora vivo e vegeto». Purtroppo non si tratta di un episodio isolato. C’è infatti un precedente che risale al dicembre 2018 in Val d’Ultimo. «In quel caso - racconta il tecnico faunistico - la carcassa del rapace era stata trovata a pochi metri da una strada forestale. Colpito in volo o mentre era posato su un albero. Sempre a palla. Lo sparatore si era poi preso la briga di staccare da un’ala tre o quattro penne come ricordo. Le indagini sono in fase avanzata e speriamo vadano a buon fine». Due aquile in un anno e mezzo sono un campanello d’allarme da non sottovalutare. «Mi pare evidente che stiamo scontando - afferma Clementi - il clima di ostilità, se non di odio, che si è venuto a creare contro lupo e orso, e che per estensione tocca oggi tutta la filiera dei predatori. Si è tornati, di fatto, ad alimentare e legittimare una subcultura dei “nocivi” che pensavamo archiviata per sempre e che invece si riaffaccia. Una subcultura che, per quanto minoritaria, nel mondo venatorio sudtirolese esiste ancora». A questo si salda una seconda stortura: «Purtroppo, per una lunga serie di motivi - spiega ancora Clementi - molte riserve hanno una concezione “proprietaria” della fauna. La fauna appartiene ai cacciatori. Ovviamente non è così: la fauna è patrimonio indisponibile della collettività, va ricordato. Questa “deformazione”, chiamiamola così, porta talvolta a valutare la presenza di una specie in funzione degli interessi venatori prevalenti della riserva. Un discorso che mi è stato fatto diverse volte in questi anni di ricerca sul campo, del tipo: “Le aquile sono troppe. Ogni cova ci costa una quindicina di capretti di camoscio. Quindici pezzi che potremmo vendere incassando un bel po’ di denaro. Le aquile danneggiano le casse della riserva e non va bene”. Si tratta di una mentalità difficile da scalfire, soprattutto in un mondo venatorio chiuso e tendenzialmente autoreferenziale come quello sudtirolese».

Proviamo allora a fare un confronto con il Trentino e a vedere come stanno le cose a sud di Salorno. Lo facciamo con Paolo Pedrini, biologo, responsabile della Sezione di Zoologia dei Vertebrati del Muse. Pedrini coordina ogni anno il monitoraggio delle coppie di aquila all’interno della rete Natura 2000 e dei parchi naturali trentini. «Ho visto le immagini di Gais - dice - e devo dire che fanno male. In Trentino per trovare episodi di intolleranza di questo tipo bisogna tornare al 1994, quindi a 26 anni fa, in Val dei Mocheni. In quel caso per impedire fisicamente il ritorno di un’aquila al sito di nidificazione, il nido venne coperto con una selva di pali di metallo. Ci sono stati altri episodi di bracconaggio, e io stesso ne ho documentati una ventina, ma risalgono agli anni Ottanta o ancora prima. La specie in Trentino è protetta dal 1971, cinque anni prima della normativa nazionale. La mia impressione, dati alla mano - continua il biologo - è che qui, in Trentino, l’aquila sia un predatore “dimenticato”. Fortunatamente. Nel senso che le frizioni con le classiche categorie di allevatori e cacciatori, sono acqua passata e oggi abbiamo 65-70 coppie, grosso modo lo stesso numero di quelle presenti in Alto Adige. La mentalità “persecutoria” però sopravvive e tende a riemergere ovunque entrino in gioco interessi di tipo economico e di competizione per lo sfruttamento di determinati habitat o di certe risorse. Oggi accade maggiormente con specie ittiofaghe come aironi o cormorani, oppure per i prati dove sopravvive il Re di quaglie, ma è una battaglia senza fine».













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