«Quano Tucidide ci raccontava la peste di Atene» 

Intervista a Giorgio Ieranò. Come reagiva il mondo antico di fronte ad un’epidemia? Il docente di Letteratura greca di UniTn racconta un mondo lontano eppure vicinissimo «Nella mitologia, contrariamente al nostro senso comune. le colpe del singolo ricadono su tutti»


Maria Viveros


Trento. Sembrerebbe un discorso cinico, soprattutto in un oggi che sembra venir fuori dalle pagine di un romanzo distopico. Eppure, dal punto di vista narrativo, la malattia infettiva nutre da sempre l’immaginario delle società, tanto da essere protagonista di molte opere delle letterature di tutti i tempi per la sua possibilità di innescare intrecci drammatici, dai complessi risvolti politici, economici, culturali, all’interno di scenari inquietanti dove la collettività è costretta a combattere contro un nemico insidioso e subdolo. La letteratura diventa così specchio di un’umanità da sempre alla disperata ricerca del miracolo. Non importa se provenga dalla scienza, dalla religione o dalla magia. Purché di miracolo si tratti. A questo proposito abbiamo chiesto a Giorgio Ieranò come reagissero gli uomini della Grecia antica davanti alle malattie collettive. Professore di Letteratura greca presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento, fine conoscitore della civiltà greca, cui ha dedicato dei libri da leggere “tutto d’un fiato” non solo per la piacevolezza di una scrittura elegante e raffinata, ma perché, attraverso avvincenti racconti, Ieranò ci fa riscoprire il gusto del mito e della narrazione. Ricordiamo, oltre alla serie di libri dedicati agli dei e agli eroi del mondo greco pubblicati da Sonzogno, gli ultimi, “Arcipelago”, per Einaudi, e “Il mare d’amore. Eros, tempeste e naufragi nella Grecia antica”, per Laterza.

Professore, quali sono state le grandi epidemie che hanno segnato gli uomini del mondo antico? E quali le testimonianze più significative nelle opere della letteratura?

La storia del mondo antico è per molti versi una storia di epidemie. Si parte con la peste di Atene, nel 430 a. C., che è la più famosa anche perché ci è stata descritta minutamente da un grande storico, Tucidide, il quale l’ha vissuta non solo da testimone: lui stesso, ci racconta, si era ammalato ma poi era sopravvissuto al contagio. Il racconto di Tucidide sta alla base delle molte narrazioni della peste che caratterizzano la letteratura di tutti i tempi, compresi i Promessi sposi di Alessandro Manzoni. Ma abbiamo notizie anche sulle epidemie che sconvolsero l’impero romano, per esempio, ai tempi di Marco Aurelio e Giustiniano. Anche in quel caso erano pandemie che avevano spesso origine da luoghi remoti, come la Cina, e viaggiavano con navi o carovane che percorrevano la Via della Seta.

Nell’Iliade Apollo scaglia nel campo greco una terribile pestilenza per vendicare l’affronto subito dal suo sacerdote Crise ad opera di Agamennone. Come mai la colpa di uno solo ricade sulla collettività?

Non è un caso isolato, nei racconti mitologici greci, che la colpa di uno solo ricada su tutta la comunità. Succede lo stesso, per esempio, nella leggenda di Edipo: il re di Tebe, contaminato dal patricidio e dall’incesto, coinvolge nella sua contaminazione l’intera città, che viene travolta da una pestilenza. Si possono chiamare in causa schemi di pensiero arcaici. Ma spesso siamo arcaici anche noi moderni quando andiamo in cerca di capri espiatori o di untori sui quali sfogare la nostra rabbia e la nostra impotenza davanti a una catastrofe naturale.

Qual era l’atteggiamento del popolo nei confronti del potere e delle leggi durante un frangente tragico come quello dell’epidemia?

Il racconto di Tucidide sulla peste di Atene ci dà l’idea di come un’epidemia possa incidere sul funzionamento di una società. Lo storico descrive non solo il senso di impotenza e disorientamento della popolazione davanti a un male sconosciuto, per il quale non ci sono rimedi, ma anche l’idea che, non avendo gli individui più nulla da perdere, fosse ormai inutile rispettare le leggi. Nessuno, dice Tucidide, obbediva più agli ordini della autorità, nessuno si preoccupava di raggiungere quegli obiettivi che prima erano ritenuti importanti. Qui la peste (e quella di Atene era ovviamente cosa assai più letale del Coronavirus) diventa anche metafora, immagine di una crisi profonda dell’umanità.

In che misura cambiavano i rapporti sociali all’interno della comunità e i rapporti tra comunità diverse?

Una cosa che colpisce, nei decreti del nostro governo, è il divieto dei funerali. Misura senz’altro necessaria ma che fa venire in mente appunto le pagine di Tucidide sul fatto che la città, nell’emergenza, non riusciva più a seppellire i morti secondo i riti tradizionali. Ad Atene, comunque, nel 430 a. C. il problema era il sovraffollamento: c’era la guerra con Sparta, e la città era piena di sfollati arrivati dalle campagne. Per questo il contagio si diffuse così rapidamente. Dentro la città sovraffollata, si alternavano momenti di disperazione solitaria e momenti di solidarietà. Scrive Tucidide: “Se gli ateniesi per paura non volevano andare l’uno dall’altro, morivano abbandonati; se invece si accostavano alle persone, morivano per il contagio, specie quelli che cercavano di agire con generosità”.

Il medico Ippocrate (la scienza) e il dio della medicina Esculapio (la religione): chi aveva più seguito?

In tutte le società convivono atteggiamenti razionali e pulsioni irrazionali. In tutte le società c’è chi si affida a una protezione divina e chi va dal medico: spesso, anzi, le stesse persone fanno entrambe le cose. E il rigore della scienza medica non cancella mai del tutto le superstizioni: c’è chi ha fatto incetta, in questi giorni, di vitamina C perché una falsa notizia diceva che proteggeva dal Coronavirus. Da questo punto di vista, sarebbe presuntuoso ritenerci superiori agli antichi. Peraltro mi pare di avere sentito che, secondo una nota radio cattolica, il coronavirus sarebbe un ammonimento mandato agli uomini dalla Vergine di Medjugorje. I greci, quando imputavano le epidemie a una punizione di Apollo, ragionavano più o meno allo stesso modo.













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