Los Angeles, agosto 1984 Gabriella Dorio scrive la favola di Riccioli d’Oro

Bolzano. L’anno chiamata “Riccioli d’Oro”. Sì, perché quei riccioli tra il biondo e il castano in un caldo pomeriggio d’agosto californiano del 1984 sono diventati all’improvviso tutti d’oro. L’atleti...



Bolzano. L’anno chiamata “Riccioli d’Oro”. Sì, perché quei riccioli tra il biondo e il castano in un caldo pomeriggio d’agosto californiano del 1984 sono diventati all’improvviso tutti d’oro. L’atletica leggera italiana ha avuto tre campionesse olimpiche: Ondina Valla, bolognese, che avrebbe 103 anni (oro a Berlino ’36 sugli 80 ostacoli), Sara Simeoni, veronese, che lo scorso aprile di anni ne ha compiuti 67 (oro a Mosca ’80 nel salto in alto) e Gabriella Dorio che il 27 giugno ne compirà 63. Sara e Gabriella sono venete, entrambe hanno vinto l’Olimpiade a 27 anni. Un caso? Forse sì, forse no.

Gabriella, donna dal sorriso e dall’allegria contagiosa, con quella chioma leonina galoppava come una giovine ed elegante puledrina nel mezzofondo veloce. Si è distinta sugli 800 e nel cross – ha vinto la quarta edizione della Cinque Mulini in rosa – ma la sua gara erano i 1500 metri.

Parlare con l’ex mezzofondista padovana di nascita ma vicentina d’adozione, vuol dire affrontare un ventaglio di idee, pensieri e soprattutto di commenti dell’atletica che fu, la sua, ovvero quella di ieri, e quella di oggi Gabriella da ormai vent’anni segue le nazionali giovanili delle quali è anche simbolica “capitana”.

Tralasciando il mitico 19”72 di Pietro Mennea datato 12 settembre del 1979, Gabriella Dorio detiene i record assoluti più antichi dell’atletica italiana. Crono che risalgono ai primi anni ’80. Se da una parte può far piacere, dall’altra significa che la nostra atletica femminile nel mezzofondo dopo di lei non ha avuto campionesse tali da batterla. Suoi sono ancora i primati nazionali dagli 800 metri (1’57”66 corsi nel 1980) al miglio (4’23”29) passando per quelli dei 1000 (2’33”18) e 1500 (3’58”65).

L’allieva di Lucio Gigliotti ha vinto un titolo europeo indoor, ne ha sfiorato uno all’aperto, ha collezionato 23 titoli italiani, ha corso cinque finali olimpiche e, protagonista già nel pieno degli anni Settanta, ha lasciato le ultime tracce di sé all’inizio dei Novanta quando, già mamma e dopo l’ultima medaglia (il bronzo ai Giochi del Mediterraneo di Atene), provò l’estrema sorte a Tokyo ’91 venendo eliminata nelle batterie dei Mondiali sia degli 800 che dei 1500.

Riavvolgendo il nastro e ritornando a quel magico momento datato 11 agosto 1984 sulla pista del Memorial Coliseum di Los Angeles, i ricordi della Dorio sono tanti.

«Quella è stata una vittoria pensata e sognata per 15 anni, da quel giorno a Roma quando vinsi i Giochi della Gioventù (1971) e nella foto di gruppo dissi che avrei voluto vincere le Olimpiadi: mi presero per pazza»,

Una cosa è il sogno, l’altra è la realizzazione. Lei è stata la prima campionessa olimpica dei 1500 non sovietica. Alla rassegna di Los Angeles non c’erano le sovietiche e le tedesche dell’Est ma solo le romene.

Ero felicissima ma mi resi conto dell’impresa solo col trascorrere degli anni anche perché l’atletica non è uno sport qualsiasi ma universale, tutti corrono, senza scarpe, in pista o in palestra. Ho partecipato a tre Olimpiadi, tutte e tre boicottate (Montreal ’76, Mosca ’80 e appunto Los Angeles ’84). Quella dei 1500 è stata una finale difficile anche perché arrivavo dal quarto posto sugli 800 finiti a 22 centesimi dal bronzo. Che rabbia. Volevo rifarmi ma sapevo che c’erano le romene Doina Melinte, mia storica rivale, e Maricica Puica galvanizzata dalla vittoria sui 3000 del giorno prima.

Pochi giorni fa è arrivata l’approvazione da parte di World Athletics degli 800 metri che potranno svolgersi in corsia a cronometro con partenze intervallate di 8 secondi. Lei cosa ne pensa anche se sappiamo essere una soluzione dettata dall’emergenza sanitaria in atto?

È una richiesta partita dalla Federazione italiana su proposta dei nostri tecnici e fiduciari regionali per mantenere attivi gli atleti e non far perdere loro le gare che sono la motivazione più importante per tutti.

Che effetto avrà sugli atleti?

Certo, sarà molto strano vedere gli 800 in corsia, non c’è dubbio ma ricordiamoci che nel 1972 quando alle Olimpiadi di Monaco di Baviera vennero introdotte le gare femminili di mezzofondo, sembrava arrivassero le aliene. Negli anni successivi le donne hanno dimostrato di essere non meno degli uomini, sono solo diverse. Per mantenere attivo il movimento dovevamo inventarci qualcosa come i lanci virtuali con telecamera, un giudice arbitro e due giudici al fine di rendere ufficiali le prestazioni.

Meglio di lei non c’è nessuno che ha il polso dell’atletica leggera italiana del domani. A che punto siamo?

Ci sono dei buoni talenti per il nostro domani. Velocità, lanci, ostacoli e salti hanno eccellenti risorse, un po’ meno nel mezzofondo perché troppi si arenano. Nadia Battocletti e Yeman Crippa, per esempio, arrivano dalla nazionale giovanile. Il rammarico è vedere che dopo 40 anni i miei record nazionali non siano ancora stati migliorati. Avevo una speranza in Federica Del Buono, ha avuto qualche interruzione causa infortunio ma adesso sta ritornando, speriamo.

Lei ha vissuto il cambiamento dell’atletica: cosa dice in merito?

È cambiato il mondo e ogni anno devo cambiare il modo di rapportarmi con i ragazzi. Seguo il movimento giovanile da 22 anni e con i giovani ho un bel rapporto. A volte faccio la psicologa anche se psicologa non sono. A volte dimentico di essere campionessa olimpica e adulta. I ragazzi di oggi sono sempre più fragili psicologicamente, noi una volta dovevamo arrangiarci, nessuno ci diceva come andare a scuola: io mi ero costruita una bicicletta. Adesso c’è tutto a disposizione e non sempre è un bene. Cerchiamo di organizzare raduni tutti assieme tra Grosseto, Formia e Tirrenia ma non è sempre facile raggruppare tutti i giovani con i loro tecnici».

A Vipiteno, per esempio, avevamo un buon movimento per il mezzofondo, adesso non c’è più nessuno. Come lo spiega?

Cosa è successo me lo chiedo anch’io perché era un bel bacino. Mi chiedo, è solo colpa dell’atleta che non nasce o anche dell’allenatore?.















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