Morire giocando in un cortile di casa chiamato bosco



La morte, come scrive Pessoa, è una curva della strada. Ma è una curva quasi sempre inattesa, imprevedibile. A maggior ragione se la strada è quella di due ragazzini di 13 anni che davanti ad ogni passo, ad ogni gioco, ad ogni impresa, hanno un’intera vita da vivere.
Il bosco e il dirupo a pochi passi dalla baita del nonno, in val Daone, per molti di noi, sono il cortile di casa: il luogo magico e misterioso delle avventure, delle capriole, dei salti, dei voli, delle sfide. Un rifugio insieme sconfinato e dai confini molto precisi: dove chiudendo gli occhi si può immaginare ogni cosa e dove si può morire un sacco di volte. Ma solo per gioco, per finta: un grido, un respiro, e si torna sempre a vivere e a sorridere.
La realtà, nei boschi, si riproduce, si emula, si copia, s’inventa e s’allarga. Ma è sempre finzione, trasposizione, interpretazione. Perché nel cortile di casa si può crescere in fretta, si può cadere, ci si può anche far male, ma non si può davvero morire.
La morte è però sempre dall’altra parte della strada. Sulla curva. In fondo al “cortile”. In una pagina che si può strappare all’improvviso. Senza un perché. Togliendo il respiro a un nonno che non sarà mai più lo stesso, a un padre che è stato il primo a trovare un cucciolo che non si poteva più proteggere e a famiglie che non troveranno mai tutte le risposte. Se non nel sorriso - immortale, dolce, travolgente - di Fabio e Federico. Morti giocando. Forse cercando disperatamente di aiutarsi a non finire oltre il confine di un regno che pensavano incantato.













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