Sulla via che porta a Timimoum, perla dell'architettura sudanese
Se Paolo si convertì scoprendo la grandiosità dell’anima cadendo da cavallo sulla strada di Damasco, più modestamente io mi sono “convertito” alla grandiosità del deserto viaggiando verso Timimoum....
Se Paolo si convertì scoprendo la grandiosità dell’anima cadendo da cavallo sulla strada di Damasco, più modestamente io mi sono “convertito” alla grandiosità del deserto viaggiando verso Timimoum. Era la fine di marzo del 1978. Lo ricordo con precisione perché le Brigate rosse avevano, da pochi giorni, rapito Aldo Moro. Per tutti furono giorni difficili e, personalmente, avevo bisogno di silenzi per riflettere su quando stesse accadendo.
Al finestrino dell’aereo che da Algeri mi stava portando a Bechar, ammiravo quella infinito oceano di sabbia color oro che di cui non si vedeva fine. Non appena sceso dalla scaletta, all’aeroporto di Bechar, preso dall’ inebriante euforia di aver messo piede nel Sahara dei miei sogni, d’istinto, ho preso in mano la mia macchina fotografica per immortalare quella mia “prima volta”. Non avevo neppure sentito il clic dello scatto che già ero stato investito da un’ improvvisa violenta raffica di acuti sibili di fischietto.In un attimo – ancor prima di rendermi conto di cosa mi stesse accadendo - mi sono ritrovato circondato da alcuni poliziotti piuttosto agitati. Ho capito subito che non era un …benvento. Gli agenti mi hanno perentoriamente intimato di seguirli. Destinazione: l’ angusto e squallido ufficio della gendarmerie. A quei tempi non conoscevo una sola parola di francese. E le guardie nessuna né d’ inglese, né tantomeno d’ italiano. Al termine di quattro ore di surreale dialogo tra sordi (nessuno capiva l’altro), mentre mia moglie mi attendeva attonita senza essere mai stata “aggiornata”, dopo alcune incomprensibili telefonate con chissà chi, e dopo avermi sequestrato il rullino fotografico con cui avevo documentato il mio “sbarco” nel deserto, mi hanno congedato come nulla fosse accaduto. Poi ho capito. Allora i viaggi organizzati in quei luoghi non erano concepibili e mi avevano scambiato per uno sprovveduto 007, anziché per quel “turista fai da te” quale ero in realtà! L’aereo che mi aveva portato fin lì - e che avrebbe proseguito il suo viaggio fino al lontano capolinea Tindouf (al confine con il Marocco) - era infatti pieno di decine e decine di militari sovietici che, a quei tempi, sostenevano i guerriglieri del fronte Polisario che si battevano per garantire “manu militari” una patria al popolo saharawi.
Comunque, superato quello spiacevole contrattempo, prendemmo finalmente la strada verso Timimoum: la nostra meta. A bordo di un vecchissimo e sgangherato Land Rover, che tra le dune del grande Erg continuava ad insabbiarsi fino al mozzo, il viaggio fu una vera magia. Da Taghit la pista che porta a Reggane (dove i francesi sperimentarono le loro bombe atomiche) era interamente sterrata. Quindi era tutta “toulé ondulé”. La “toulé” è quel micidiale fondo stradale tutto saltelli che mette a prova esistenziale non solo le sospensioni e i pneumatici delle vetture ma, ancor più, la schiena dei viaggiatori. Fu un viaggio estremamente e faticoso. Ma quello era il deserto del mio immaginario: il vero Sahara.
Prima Thaghit, poi Beni Abbes, Kerkaz, il grande Erg e infine l’oasi di Timimoum con la sue costruzioni di fango che richiamano l’Africa nera. Timimoum è ancor oggi un’autentica perla dell’architettura “sudanese” che rende quell’oasi - e i suoi jardins ricchi d’acqua - unica. In fondo Timimoum, per secoli, è stata capolinea delle meharée, le grandi carovane di cammelli, che partendo dalla mitica Timbuctu attraversavano il deserto garantendo così collegamenti, commerci, scambi, incontri.
E’ stato proprio in quel viaggio che rimasi “folgorato” dalla bellezza della natura, della diversità, dell’ignoto e della forza di resistere ad ogni avversità. Ed è stato così che, sulla strada di Timimoum, mi sono “convertito” alla magia segreta del Sahara e delle sue genti. Da allora il deserto è diventato non solo il centro della mia curiosità, ma la mia necessaria “beauty farm” dell’anima.