Enrico, l’antifascista scappato in Argentina  per non piegarsi al duce

Mendoza (argentina). Mirta Bonvecchio ha 87 anni e conserva la storia della propria famiglia in un grosso fascicolo scritto a computer e rilegato dai figli. Sono loro i custodi della sua storia:...



Mendoza (argentina). Mirta Bonvecchio ha 87 anni e conserva la storia della propria famiglia in un grosso fascicolo scritto a computer e rilegato dai figli. Sono loro i custodi della sua storia: mentre Mirta racconta, infatti, la aiutano a mettere in ordine i ricordi.

La sua storia inizia nelle valli trentine ai tempi dell’Impero austro-ungarico. «Mio padre Enrico Bonvecchio era una testa dura, un nomade amante del mare, ma il nonno lo costrinse a lavorare con lui alla costruzione delle strade sulle valli alpine». A diciotto anni Enrico e il cugino dovettero andare in guerra, ma vennero separati il primo sul fronte austriaco con la Russia e il secondo come militare italiano in Africa. «Per mio padre quella divisione fu devastante» racconta Mirta. A causa della guerra, Enrico subì danni permanenti allo stomaco. «Fu per il freddo siberiano. Dopo essersi ammalato di colera finalmente fece ritorno in Italia con una nave inglese che viaggiò dal Mar Bianco a Genova. Appena arrivato al porto, mandò un telegramma alla famiglia per informare che era vivo».

Enrico iniziò quindi a lavorare per una fabbrica torinese. Un giorno quella fabbrica venne visitata nientedimeno che da Gabriele D'Annunzio: «Mio padre mi raccontò che quando D'Annunzio lo vide, gli disse che era un uomo ancora adatto alla guerra, lui gli rispose a muso duro che ci andasse D'Annunzio a fare la guerra. Lui ne aveva abbastanza».

Nel 1925, alla chiesa di Santa Maria Maggiore di Trento, Enrico sposò Erminia Conci, futura mamma di Mirta. Conci è un cognome molto diffuso in Trentino e anche nella Patagonia argentina. Erminia visse per lungo tempo nell’Impero austro-ungarico e così dovette imparare il tedesco. «Alla fine della guerra lavorò prima nella caffetteria del padre, poi nella libreria Mondadori di Trento».

Tra le foto di famiglia che Mirta conserva, una ritrae proprio la storica libreria.

Via da Mussolini

Un’altra fotografia che la famiglia Bonvecchio conserva è quella che ritrae Mussolini durante un comizio in Piazza Duomo a Trento. Enrico, che la figlia definisce “fanatico della libertà e antifascista”, di Mussolini non ne voleva sapere. «Nel 1927, quando per lavorare cominciò a essere necessaria l’adesione al Partito Nazionale Fascista, mio padre decise di fuggire in Argentina, dove già si erano trasferiti alcuni parenti nel quartiere "La Boca"». "La Boca" è un quartiere di immigrati tra i più vivi e colorati della capitale ed è completamente italiano. Oltre a ospitare lo stadio dell'omonima e famosissima squadra di calcio, è conosciuto per il “Caminito”, una via formata da edifici variopinti in legno che appartenevano a immigrati italiani e che oggi è un museo a cielo aperto e una delle principali mete turistiche di tutta l’Argentina. Quella genovese fu la presenza più importante nella storia del quartiere che, verso la fine dell’Ottocento, fu al centro di una sommossa: gli immigrati riempirono il quartiere di bandiere genovesi e chiesero la nascita della “Repùblica de la Boca” e l'indipendenza dall'Argentina. Non tutti i famigliari dei Bonvecchio che si erano trasferiti poi si fermarono in Argentina: quando una sorella di Erminia morì, il fidanzato decise di tornare a Trento; un altro fratello migrato in Argentina, invece, chiamò a raggiungerlo la sua futura moglie, ma lei si rifiutò, si lasciarono e lui si spostò in Brasile. «Mia madre trovò il coraggio di partire ed è una scelta sulla quale negli ultimi anni ho riflettuto molto e per la quale la ammiro. Io credo che lo fece per il bene della famiglia e perché, parliamoci chiaro, la donna doveva seguire l’uomo, per giuramento biblico o per consuetudine che fosse. Ma ci voleva coraggio: partì dopo mio padre con mia sorella Franca di due anni, arrivarono in Argentina nel 1929».

El Gringo e la crisi del ’29

Il padre lavorò prima nell'edificazione di case popolari e poi, quando trovò lavoro nei cantieri di costruzione delle strade che collegano l’Argentina al Cile, la famiglia si trasferì nella città di Mendoza, conosciuta per la produzione del vino nelle caratteristiche “bodegas”. È a Mendoza che Mirta nacque. «Mio padre dovette fare la cittadinanza argentina e rinunciare a quella italiana, ma lo chiamavano comunque “El Gringo”».

Nonostante Enrico si sentisse orgoglioso del suo appellativo, la famiglia negli anni Trenta accusò la crisi americana del '29 e, siccome l’Italia mostrava segni di ripresa economica, la madre tornò con le figlie in Italia.

Mirta di quel viaggio non ricorda nulla, ma la madre lo ricordò sempre come terribile: «Aveva una figlia di sette mesi con la tosse, che ero io, e Franca di sette anni che non voleva tornare in Italia e allora si rifiutava di mangiare».

In Italia mamma e figlie iniziarono a vivere con le tre sorelle del padre: «Mia zia ci leggeva molti racconti e conobbi così classici come “Pinocchio” e “Piccole donne”».

Anche stavolta però le decisioni di un uomo politico cambiarono il destino dell’intera famiglia: Mussolini invase la Libia e papà Enrico si rifiutò di tornare anche lui in Italia. «Ci disse di raggiungerlo in Argentina. Mia madre, traumatizzata da quei continui spostamenti, era contraria a tornare, ma lui non voleva il fascismo e la guerra, credo che il suo trauma fosse aver visto troppe volte la morte in faccia».

L’impresa di costruzioni

Nel giugno del 1935 la famiglia fece così ritorno a Mendoza e iniziò un lungo periodo di traslochi per i diversi lavori del padre. «Le strade argentine erano in condizioni disastrose, potrei scriverci un romanzo su quei viaggi». Quando dopo la seconda guerra mondiale la situazione economica argentina migliorò, la famiglia aprì un’impresa edile per edificare ponti e scuole. Mirta ricorda che quello fu l’inizio di una stagione felice e anche le sue zie, che erano rimaste sole in Italia, raggiunsero la famiglia a Mendoza. «Non mancava la mondanità, ricordo che mia sorella usciva spesso la sera e quando a una festa conobbe il suo futuro marito, capimmo che il destino della nostra famiglia ormai era in Argentina».

Il rapporto con l’Italia

In casa non si parlò mai molto dell'origine italiana della famiglie. «Io però sapevo che un giorno sarei andata a conoscerle coi miei occhi» afferma Mirta che, una volta laureata, si spostò a studiare scienze dell’educazione in Europa. Trascorse nove mesi a Madrid e due a Parigi e colse l’occasione per visitare la famiglia. «Passammo a Trento il Natale del 1964, fu un Natale tra i più felici della mia vita. In famiglia, ma dall’altra parte del mondo».

Il nome del padre di Erminia, oggi, lo ha ereditato il nipote, ma tradotto in spagnolo: Enrique è studente di ingegneria informatica a Barcellona e lo incontro in Argentina a passare le feste natalizie con la madre. Anche lui ha visitato i luoghi delle sue origini: «Vedere dove è nata la mia famiglia è stato di impatto emotivo forte. Per l’America l’Europa è il sogno di un continente unito e con speranze per i giovani, anche se in realtà ho scoperto un insieme di paesi che pensa ognuno per sé. Verso noi migranti mi sembra che ci sia un nascosto, forse represso sentimento di supremazia».

Da Trento nessuno della famiglia Bonvecchio-Conci si è spostato in Argentina per conoscere i luoghi che hanno riguardato parte della loro storia. “Io sono meglio di te” sembrano pensare gli europei. Che non sia dovuto proprio a questo?













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