LA STORIA

Irfo Borin, il ragazzo partigiano che Bolzano ha dimenticato 

L’esecuzione nel cortile dello stabilimento Lancia il 3 maggio 1945. Lo studente delle Iti  aveva 19 anni. Ucciso con un colpo in testa dai tedeschi sotto gli occhi  di Carolina, sua amica e coetanea, che non si riprese più dallo shock. Antifascista, faceva parte dei Gap e presidiava le fabbriche per evitare furti e sabotaggi da parte degli sbandati delle Wehrmacht


Luca Fregona


Bolzano. Chi era Irfo Borin? Perché a Bolzano non c’è una scuola, o una via, o una palestra con il suo nome? Perché un ragazzo di 19 anni, partigiano, Croce al Merito di guerra, ucciso con un colpo di pistola alla testa il 3 maggio 1945 nel cortile della Lancia, non merita almeno il rispetto del ricordo?

Questa è una storia dimenticata, nascosta per decenni sotto la polvere. Che trascina con sé il dolore di una famiglia distrutta dal lutto e dalla perdita. Settantasei anni dopo, l’unica che può raccontarla è la nipote Marzia Bonfanti, figlia della sorella più grande di Irfo, Jone. Marzia tira fuori dai cassetti un plico di foto in bianco nero e la tessera numero 13 dell’Associazione nazionale partigiani, comitato provinciale di Bolzano. Una tessera ad memoriam. Anno 1946.

Eccolo qui Irfo: alto, magro, i muscoli tesi da alpinista, gli occhi neri, i cappelli scuri tirati dalla brillantina. Classe 1926, studente con ottimi voti alle Iti di via Cadorna, appassionato di montagna e di ogni tipo di sport. Suo padre Mario, autista per l’Ente Tre Venezie, è arrivato dal Veneto alla fine degli anni Venti. Un socialista, Mario, che odia i fascisti da sempre. Da quando hanno ammazzato come un cane Giacomo Matteotti.

«Abitavano in viale Venezia al numero 23 - inizia Marzia -: al piano rialzato c’era un comando militare tedesco. Mia madre mi raccontava che i nazisti li minacciavano in continuazione».

“Se perdiamo la guerra, tutti kaputt, vi facciamo saltare in aria insieme a noi”, dicevano ai Borin facendo il segno del dito che taglia la gola. «Tant’è che mio nonno, per star tranquillo, decise di mandare la famiglia sfollata sopra Rencio». Gli unici a restare in viale Venezia sono Irfo e la zia Gisella, sorella della mamma, che gli prepara pranzo e cena e lava i vestiti. Per sfuggire al reclutamento nell’esercito tedesco, Irfo era stato “precettato” alla Lancia con altre decine di giovani bolzanini. Formalmente “lavoratori per il Reich”, anche se di fatto l’obiettivo era ben diverso: salvare vite destinate ai fronti della Germania hitleriana, e sabotare l’industria bellica del Terzo impero. Da studente delle Iti, abile ed esperto di macchine, Irfo viene messo al tornio. Ha le idee molto chiare. È antifascista per indole e tradizione familiare. Ai suoi non ha detto niente per non preoccuparli e coinvolgerli, ma ha aderito alla Resistenza. È un sottotenente dei Gap, i Gruppi d’azione patriottica attivi nelle città. Si riconosce in Giustizia e Libertà. Il 3 maggio 1945 si alza all’alba per andare in Lancia a presidiare la fabbrica. Migliaia di tedeschi in rotta stanno attraversando la città per raggiungere il Brennero. L’ordine del Comitato di liberazione nazionale è di tenere sotto controllo la situazione senza ingaggiare conflitti a fuoco. Ma l’aria è pesante. Da giorni gli sbandati entrano nei palazzi e nelle fabbriche. Cercano cibo, camion, auto, benzina. Rubano persino le biciclette. Irfo, verso le 6 di mattina, torna a casa per mettere al sicuro la sua. La zia lo scongiura: «Stai qui, non uscire più, è pericoloso. I nazisti sono dappertutto».

Irfo non può dirle niente. Ma lui deve andare. Ridiscende ponte Roma a piedi, si ferma un istante al posto di blocco del Cln. «Attento - gli dicono-, si sentono dei colpi dalla Zona industriale, occhio agli sbandati». Venti minuti dopo è in Lancia. Alle 7, dai tetti dello stabilimento Ceccarini, gli operai sparano su una colonna della Wehrmacht. Alle 7.30 dalla Lancia sparano a una vettura su via Razza (oggi via Volta). A bordo ci sono degli alti ufficiali. Arriva un camion di soldati di rincalzo. Gli operai lanciano bombe che colpiscono il cassone. Ci sono morti e feriti. Immediata parte la rappresaglia, guidata da una compagnia di paracadutisti. Uomini spietati, duri, avvezzi alla tortura e alla strage, reduci dalla repressione anti-partigiana in Veneto e Friuli. I parà reagiscono: piazzano un autoblindo con mitragliatrice davanti alla Saffa (dove oggi c’è la Metro). Poco lontano, alla Ceda, giustiziano sul posto Romolo Re e Virgilio Lorenzetto. I parà entrano alla Lancia. Uccidono Ermanno Bonnani a pochi metri dall’ingresso. Poi Annibale Bertolina, di guardia in portineria. Dentro gli operai si rifugiano in un capannone, i partigiani mescolati alle tute blu. Chi ha le armi le nasconde. I parà passano al setaccio la fabbrica. Spingono gli operai nel cortile mani dietro la testa. Perquisiscono tutti. Uno ad uno. Irfo Borin, ha una pistola infilata nel risvolto dei calzoni alla zuava. Alcuni testimoni, racconteranno che si trattava solo di un caricatore. Altri che invece era la Mauser di un tedesco catturato la sera prima e rinchiuso in uno scantinato della fabbrica. I parà trovano l’arma. Lo strattonano fuori dalla fila. Un ufficiale gli pianta la canna della pistola mitragliatrice nella pancia. Un altro si intromette: «Non farlo, non ucciderlo, non vedi che è solo un ragazzo?». Ma quello niente, non ci sente. Arma il cane. L’altro non insiste.

«Beh, fa come vuoi...».

Raffica. Irfo fa in tempo a mormorare “mamma” due volte. Un’invocazione. Il tedesco gli dà il colpo di grazia alla testa. Spara davanti a Carolina Zenoni, 19 anni come Irfo. Carolina è aiuto cuoca in mensa, ha voluto essere in fabbrica perché “i nostri qualcuno deve pure sfamarli”. Lei e Irfo si conoscono, c’è una forte simpatia, forse l’inizio di un amore nato durante le escursioni in montagna. Il sangue schizza sul grembiule. È la fine di tutto. Niente è più come prima. Lei non c’è più. Non parla. Non sente. È morta con Irfo. «Probabilmente è questa bella ragazza con lui nelle foto», dice Marzia Bonfanti. Scatti in bianco e nero di un gruppo di ventenni. Ogni foto è segnata: data e luogo. 1940, gita sulle Torri del Vajolet. 1941, Rifugio Coronelle. 21 gennaio 1945, Bolzano, una giornata sui pattini. Corno Bianco, 1945, una gita sulla neve. Aprile 1945: Irfo e Carolina. Irfo col sorriso dolce, smunto e largo. Carolina da sola fotografata da Irfo: lei lo guarda ciondolando le gambe nude seduta sul muretto. Con quel casco di ricci ribelli domati a stento dalle forcine.

Ora sì, sappiamo chi era Irfo Borin. Ha un volto, una famiglia, degli amici, una ragazza. Voleva diventare ingegnere, sposarsi, costruire un Italia migliore. Le foto e il racconto di Marzia lo riportano in vita, gli rendono giustizia, lo tolgono dalla polvere. È uno dei 36 morti di quel tragico 3 maggio. Insieme ai fucilati al muro della Lancia, agli ammazzati a caso nelle strade di Don Bosco, ai falciati da una sventagliata di mitra o da un colpo di mortaio. Una vittima è anche Carolina, morta a 80 anni il 14 aprile 2006 dopo aver trascorso l’esistenza tra manicomi e ospedali psichiatrici. «Sindrome dissociativa causata da trauma», hanno detto i medici. Lei è rimasta per sempre lì, inchiodata, paralizzata nel cortile della fabbrica davanti al tedesco con la Mauser. Così come, il 3 maggio, è finita anche la vita dei genitori di Irfo, Mario e Maria. «I miei nonni - continua Marzia - hanno saputo cos’era successo solo un paio di giorni dopo. Diceva mia madre che nella confusione avevano accatastato le salme all’ospedale, ed erano giornate caldissime, e aspettavano le bare perché non ce n’erano a sufficienza tra le urla disperate e le lacrime di altri padri e altre madri. Uno strazio. La Lancia ha pagato poi una costosa bara zincata». Lo adagiano nella cassa con la giacca di pelle che amava tanto.

Altre foto: i funerali al cimitero di Oltrisarco. Il feretro issato e spinto nei loculi sotto le arcate accanto alla cappella. La lapide: «Il 3 maggio 1945 cadeva per la Patria ucciso da piombo nazista BORIN IRFO. Genitori, sorelle, parenti, la Lancia e i compagni di lavoro a perenne ricordo».

Il padre Mario si infila nell’occhiello della giacca il bottone nero del lutto. Non lo toglierà mai più. Impone il lutto per tre anni alla moglie e alle figlie Lidia e Jone. La perdita di Irfo, su cui aveva riposto speranze, aspirazioni, futuro, è devastante. Il comitato di Bolzano dell’Associazione partigiani consegna a Mario la tessera onoraria alla memoria. Lo stesso fa Giustizia e Libertà. Gli amici gli portano la piccozza e la corda di Irfo. Mesi dopo in viale Venezia si presenta una ragazza (Carolina?), quasi a chiedere scusa per una promessa d’amore che non potrà mantenere.

Altre foto: 3 maggio 1947, la madre in Lancia per l’inaugurazione del cippo ai caduti; gli operai in tuta silenziosi, le sorelle vestite di nero col viso nascosto nei fazzoletti bianchi. 3 maggio 1948, la commemorazione in piazza della Vittoria: le vedove, le madri e le sorelle dei martiri. 27 aprile 1954, piazza IV novembre: un alto ufficiale punta sul petto di Mario la Croce al merito di guerra del figlio. «Giovane combattente della lotta di Liberazione -recita- , distintosi per dedizione alla causa e per coraggioso comportamento, si impegnava arditamente con altri compagni per proteggere la zona industriale dai tedeschi in ritirata».

Ma non basta una medaglia a lenire il dolore della memoria negata. La Bolzano del dopoguerra ha fretta di dimenticare. Le cerimonie svaniscono, i cippi accumulano corone ingiallite e fiori appassiti. I morti restano soli, confinati nel rimpianto delle vite spezzate, ancorati alle famiglie che maledicono le occasioni perse e gli assassini mai trovati. Ecco, forse adesso, dopo 76 anni, è arrivato il tempo di dire: Grazie Irfo. Prima che svanisca di nuovo. E questa volta per sempre.

 













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