Scarpe, Villotti chiude dopo 62 anni

«Siamo fortunati: possiamo permettercelo. C’è chi non riesce a farlo perché non ha i soldi per liquidare i dipendenti»


di Davide Pasquali


BOLZANO. «Ci sono commercianti miei amici, anche del centro storico, che la notte vomitano, letteralmente, dai pensieri che hanno. Tirano avanti unicamente perché non possono permettersi di chiudere: non hanno nemmeno i soldi per pagare la liquidazione ai dipendenti. Non sa quanta gente mi sta invidiando, in questi mesi, perché a maggio chiudiamo il nostro negozio, dopo 62 anni». È l’amaro sfogo di Franco Villotti, 70 anni, titolare dell’omonimo, storico emporio di calzature in via Roma, una delle colonne del commercio italiano del capoluogo.

Cappelli e scarpe dal 1951. «Mia madre era della val di Fiemme, mio padre della val di Cembra. Nel 1938, mese più mese meno, la mamma aprì un tabacchino - oggi si chiama Peter - poco prima di piazza Matteotti, mentre mio papà, proprio in piazza, aprì la sua bottiglieria». Si conobbero, si sposarono, il tabacchino poi venne ceduto per investire altrove. La bottiglieria no. «Abbiamo dato da bere a mezza Bolzano, l’abbiamo tenuta noi fino al 1978». Nel 1951, in una via Roma dove allora c’era un solo edificio, «quello della pizzeria Posillipo», ne venne costruito un secondo, di fronte a dove, un anno e mezzo dopo, sarebbe sorta la Fiera. «Nella zona di via Torino, via Milano e piazza Matteotti, non c’erano negozi di scarpe. C’erano Fill a Gries, Buratti in centro, ma in quelle zone bazzicava solo il ceto impiegatizio. Nei quartieri popolari non si vendevano calzature. Un nostro punto di forza poi, per decenni, sono stati i cappelli. Rizzolli li vendeva ai tedeschi in centro, noi qui agli italiani. Erano gli anni in cui, quando c’era un comizio in piazza, nelle foto vedevi solo un mare di cappelli e coppole. Erano i tempi in cui dalla domenica d’oro - che era una sola - fino alla vigilia di Natale, in negozio era una bufera, altro che oggi. Tutti a comprare e regalare cappelli. Li abbiamo tenuti fino a sei-sette anni fa, ma ormai non li indossano più neanche i pelati!».

La fine del 2010. «È stato lì che abbiamo cominciato ad annusare un certo malessere: la difficoltà, le perplessità della gente a comprare certi articoli. Il problema maggiore, per chi vende scarpe, è il peso del magazzino. Se sbagli qualcosa, ti ammazza. Le variabili sono tantissime: colore, forma, tacco... Basta sbagliare una sola variabile, e quella scarpa non te la prendono neanche se gliela tiri nella schiena. Questo già valeva prima, se poi ci metti la crisi... E qui da noi i rappresentanti mi dicono che va ancora bene. Ma allora, altrove, come fanno? Si sparano un colpo?». Insomma, nel 2010 Villotti comincia a dire “E adesso, cosa mi invento?”. «Quando sento i politici, coloro che si ritengono quelli che sanno tutto, ma che non hanno mai messo piede dietro un banco, e che non sanno neppure cosa sia un negozio, dire che si deve (r)innovare, ti viene voglia di cantargliene quattro». Cosa si deve fare, «mettersi a vendere candele o vini assieme alle scarpe? E la specializzazione? Una volta i clienti dicevano “vado da Villotti” perché sapevano che qui c’era tanta specializzazione. Oggi tutti vendono tutto, non c’è più competenza».

Politici miopi. Quando Villotti vede «i politici che gioiscono intimamente e a volte anche ufficialmente perché si apre un nuovo store, non hanno neanche idea di che danni fanno.Questa moria di negozi porterà alla desertificazione. Quando via Claudia Augusta avrà solo bar, nessuno andrà più a passeggio per vedere le vetrine nuove». Anche «tutti questi progetti di centri commerciali naturali, via Milano e via Torino, ci fanno gli studi... Intanto, quando si farà? Quando saranno tutti morti? E poi mi domando: chi pagherà?». Idem per corso Libertà. «Quelle sono favole».

Villotti, quando dieci anni fa era responsabile dell’Unione per Bolzano, aveva pronosticato: «Quando la Provincia non riuscirà più a mantenere la legge che regolamenta in qualche modo il settore, saremo fregati. Sapevo saremmo andati avanti sei-sette anni. Ho sbagliato di poco». Adesso, «Podini aumenta, Tosolini aumenta, il miliardario austriaco costruisce... Ma a chi venderanno? Andate ad indagare, a qualche mese dall’apertura, come va e quanto personale hanno ora da Zara o da H&M». Quelle però sono grosse catene, «per logiche tutte loro, al limite, possono anche permettersi di lavorare in perdita. Gli altri, per sopravvivere, devono limare su tutto. Ora non resta che ridurre gli orari, per abbassare i costi, ma a farne le spese è il personale, che viene lasciato a casa». Tanti vorrebbero addirittura chiudere, ma non possono. «Ne conosco diversi, anche in centro (che non è la panacea del commercio). Un negozio che ha anche solo due commessi, che sono dentro da 15-20 anni, come li liquidano? Dove li trovano 30-40 mila euro a commessa? Da dove lo tirano fuori, il Tfr, se non l’hanno messo da parte? Lo stesso vale per gli artigiani. Il fabbro in attività da 40 anni, con quattro operai, tira avanti solo perché non può permettersi di chiudere: liquidarli è una cosa pazzesca».

Come uscirne. «Lavoro da 46 anni, fisicamente ce la farei ad andare avanti. Ma non so come si possa fare, cosa vendere. Qual è l’articolo che tira, qualcuno me lo sa spiegare? La burocrazia poi non ne parliamo. E le banche?». Villotti potrebbe tenere delle lezioni accademiche sulle difficoltà che si devono affrontare per gestire un negozio.

Invece, andrà semplicemente in pensione. «Perché con questi politici di Comune e Provincia, che dicono sempre “ghe pensi mi”, ma poi, quando vai dalla loro segretaria, scopri che non hanno fatto un bel niente...»













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