Dalle bombe alla convivenza «Due nomi, due realtà» 

La testimonianza. Norma Fontana Corti ripercorre mezzo secolo dalla paura del tritolo al Pacchetto, attraverso rancori e amicizie «Abitavamo a Brennero, era piena di italiani. Oggi ci sono i pachistani» La storia dell’Alta Valle Isarco nel racconto della responsabile Upad


Sara Martinello


Vipiteno. Dopo il cielo, la terra. Prima furono le bombe degli Alleati sulla ferrovia e sulla polveriera, poi il tritolo sotto i tralicci dell’alta tensione. Mentre la stampa estera scopriva la questione altoatesina e le cronache parlamentari si affollavano nella sua cruna, di fronte alle comunità di lingua italiana incuneate nelle valli si aprivano gli anni della paura. Alcuni scelsero di scendere verso Bolzano, molti altri rimasero. La spinta dinamitarda agiva su due piani: quello politico, cercando di indurre Roma a rinunciare alla provincia di Bolzano, e quello sociale, col tentativo di sfibrare le comunità dei Walsch. Nata nel 1943, oggi guida turistica e responsabile dell’Upad di Vipiteno insieme a Giulio Todesco, Norma Fontana Corti ricorda bene quegli anni. «A Malga Sasso nel ‘66 morirono tre finanzieri e altri quattro furono feriti. Avevamo paura, era una cosa che vivevamo sulla nostra pelle».

Gli anni del tritolo.

Altro giorno, altro tè al bar Teatro, l’accogliente ritrovo di Marco Zanarotto. Norma è una signora elegante con gli occhi brillanti e azzurri, un’Atena glaucopide scesa su queste creste di roccia nuova. Porta i turisti alla scoperta del territorio, organizza conferenze sulla storia altoatesina (“Alto Adige, due nomi, due realtà”), ha collaborato con diverse testate. «Noto da parte dei turisti un interesse crescente per la storia della nostra provincia. Comprendono che è una realtà complessa e desiderano approfondirla», spiega.

Una realtà consolidata a Bolzano o a Merano, più sfumata a Vipiteno, anche perché dove la popolazione di lingua italiana non supera il 26 per cento abbattere il muro etnico è più facile, o almeno necessario. Ma è stato un processo lungo, doloroso, scandito nei comparti disegnati dal Pacchetto. «Con la mia famiglia abitavo a Brennero, che al tempo era soltanto italiana. La mattina scendevo a Vipiteno per andare a scuola, a ogni fermata un centinaio di bambini e ragazzi salivano sul treno. Eravamo tanti e non avvertivamo il risentimento che covava una comunità di lingua tedesca che a quei tempi era sottomessa. Col ‘61 cambiò tutto, un presidio militare a ogni chilometro di ferrovia da qui a Trento. Se tutto non è sfociato nella guerra civile è merito di Silvius Magnago e del vescovo di allora, Joseph Gargitter».

Una società povera.

Non ci sono le Ferrari parcheggiate davanti ai fienili, nel ricordo di Norma. C’è una provincia al 92esimo posto in Italia per ricchezza, c’è una popolazione autoctona piena di interrogativi sull’invasione messa in atto pochi decenni prima. «Dall’autunno alla primavera i masi erano nuclei isolati. Il Kaiser era morto, la patria era altra, dei tre pilastri restava solo dio. E poi questi italiani, diversissimi, un’imposizione da accettare senza nemmeno sapere che cosa stesse succedendo. C’era tanta ignoranza. Prima dell’avvento del fascismo c’era stato un affiancamento degli amministratori italiani a quelli di lingua tedesca, tanto che Perathoner quando accolse re Vittorio Emanuele III a Bolzano gli parlò in tedesco! Poi la fatica fu da parte di entrambi i gruppi: gli italiani nel far rispettare le leggi, i tedeschi nel sacrificare cultura e radici».

Brennero Islamabad.

A Brennero, dove Norma ha passato l’infanzia, la popolazione di lingua italiana è passata dal 42,68 per cento del 1971 al 18,64 del 2011. «Un ruolo di primo piano l’ha giocato l’apertura del confine nel 1998, dopo Schengen: tra dogana e Guardia di finanza 500 persone si sono trasferite più a sud, lasciando nel paese soltanto carabinieri e Polfer». A una floridità durata decenni è seguito un improvviso crollo economico e demografico, prosegue Norma. «A quel punto si è deciso di costruire un outlet, che però pur occupando metà del paese non funziona come si sperava all’inizio. E le case dei ferrovieri sono state affittate per lo più a pachistani: ecco perché quella zona ha preso il nome di “Islamabad”. Sono gran lavoratori». La mia interlocutrice non conosce la mia posizione rispetto ad accoglienza e inclusione. Si fa soccorrere dall’estetica del lavoro di stampo veneto, quella che rende meno impegnativo accettare le ondate migratorie più recenti. «A Vipiteno oggi i residenti di origine straniera arrivano al 9 per cento. Molti hanno trovato un impiego, chi all’Eurospar, chi alla Leitner, chi nel commercio o nella ristorazione, nel pieno rispetto reciproco, verso un’integrazione che spero possa realizzarsi pienamente».

Un occhio al futuro.

Chissà, un giorno il Dorfbuch dei vipitenesi lo scriveranno le comunità di più recente formazione. Al momento però la questione altoatesina sembra ancora polarizzata tra “italiani” e “tedeschi”, con le bande musicali, la scuola, le organizzazioni per la tutela del territorio. La tradizione del volontariato, tra Croce bianca e vigili del fuoco. Dedicare parte della propria vita alla salvaguardia della comunità. Una casa della cultura in ogni paese. Le filodrammatiche. Oggi la popolazione di lingua tedesca – non possiamo chiamarla “comunità” – cerca di tenere viva se stessa attraverso un’organizzazione sociale che investe il singolo di una responsabilità nei confronti dei vicini di casa e che attiva un controllo conservativo dell’esistente. È la sponda ctonia della legge superna, l’Autonomia.

E gli italiani? A Bolzano sono tanti. Attorno ai pilastri di settant’anni fa – il teatro, il giornale e le parrocchie – hanno costruito associazionismo ed economia. L’hanno fatto pure a Vipiteno. Ma dove la comunità è più piccola servono più coraggio e voglia di impegnarsi. Ieri, su questa pagina, Ciro Coppola rivendicava un naturale attaccamento alla cittadina. Norma Fontana Corti porge al lettore una visione diversa e complementare: «Ci manca avere radici comuni, c’è un senso di provvisorietà. Negli anni Ottanta magari non si vedeva la lingua tedesca come un’opportunità, mentre oggi una sensibilità c’è. Anche se resta una separazione, forse voluta». Non resta che picconare dal basso. Per esempio col caffè delle lingue, attivo ormai da undici anni grazie a Christine Zwischenbrugger. «Siamo cinque o sei, ci incontriamo due volte al mese e c’è anche una signora inglese che viene dalla val di Fleres». Le tazze da tè sono vuote, è il tempo di salutarci. A presto, su questa pagina.













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