«I masi della “Piccola Italia” e l’oratorio, quanta nostalgia» 

Le testimonianze. Pierina Alberti e Adriana Da Col ricordano gli anni dell’infanzia tra la città e l’insediamento di Flanes Ghiaccio contro la finestra della chiesa, i matrimoni misti, il cioccolato. «Non si aveva molto, ma non ci mancava niente»


Sara Martinello


Vipiteno. Per decenni nella chiesetta vicino ai masi di Flanes ha soffiato uno spiffero tondo tondo. «Quel buco così, in una finestra, l’aveva fatto mio cugino con una palla di neve gelata. Era il 1954, il vetro l’hanno sostituito da poco, sa?». Pierina Alberti è a Vipiteno per una breve vacanza. Trasportata su e giù per l’Italia dall’Arma, col marito carabiniere, oggi è certa di voler tornare a vivere qui. La incontro insieme all’amica Adriana Da Col, che invece a Vipiteno ci è rimasta. E mi raccontano di un mondo antico e grande, della natura che qualche volta si è ripresa tutto, della festa che erano i masi della Piccola Italia.

Popolare i masi.

Emigrati da zone rurali, dovevano abitare zone rurali. Ripopolarle dopo le opzioni, fondare una produzione agricola che parlasse l’italiano, ricamare legami impermeabili alla cultura dell’austroungarico sconfitto. In “Passaggi e prospettive. Lineamenti di storia locale. L’età contemporanea in Alto Adige”, citato da Caterina Fantoni nel volume “Vipitenesi. Storia di una comunità dalle origini al dopoguerra”, si scrive di come nel 1939 l’Ente rinascita agraria (Era, poi Entv, Ente nazionale delle Tre Venezie) fosse arrivato ad acquistare 359 masi, destinati agli italiani delle vecchie province. Poco dopo la firma del Patto d’Acciaio, in provincia si contavano 147 famiglie immesse in Alto Adige dall’Era, “dislocate su 119 aziende che coprivano un totale di 3.761 ettari”, come scrive Andrea Di Michele in “Terra e italianità. L’Ente nazionale per le Tre Venezie tra fascismo e repubblica”.

Nella zona di Vipiteno l’Era acquistò sette masi chiusi. Fantoni approfondisce la realtà di Flanes, località nella frazione di Ceves nota come “Piccola Italia”. È lì, al Wastenhof, che nell’ottobre del 1935 si insediò la famiglia degli Alberti, arrivati da Sondrio. Dopo di loro arrivarono i Cusini, anche loro dalla provincia di Sondrio, come pure i Libera, che si stabilirono a Ceppaia. E ancora a Flanes, nel 1938, i Gianoli (sempre di Sondrio) e i Faccioli, dal Vicentino. Secondo la sintesi di Fantoni, non è inverosimile “l’ipotesi che sia stato l’Era ad assegnare masi vicini a coloni provenienti dalla stessa provincia, nell’ambito di un’operazione mirata”.

Le testimonianze.

Il nonno di Adriana Da Col e il padre di Pierina Alberti lavoravano alla Saila, la segheria. «Io invece lavoravo da Salvioni», racconta Pierina, che aveva appena quattro, cinque anni quando con la famiglia lasciò Flanes per stabilirsi a Vipiteno. «Ma vivere nel maso era incredibile. Eravamo un gruppo di famiglie, una marea di persone: i miei nonni, mia zia, lo zio, mio padre che a quel tempo era in guerra». Era in guerra anche Arcangelo, il padre di Adriana. In Russia. Suo cugino Claudio ricorda il padre Pietro in Albania, un altro zio morto nel ‘43.

Trasferirsi in Alto Adige, allora, significava anche conoscere persone di altre parti d’Italia, avviare una discendenza aperta all’incontro. «Mia nonna era del Comelico, “dove le galline devono mettere i ramponi”, diceva mio nonno. Lei parlava un dialetto incomprensibile, così in casa nostra la lingua divenne l’italiano». Norma Corti Fontana mi ha detto che era più facile che una giovane donna del gruppo tedesco sposasse un italiano: Adriana conferma, ma rappresenta anche un’eccezione. «Mio marito era di Rio di Pusteria, era venuto fin sotto casa a farmi la serenata». Bello come quell’attore lì, soggiunge Pierina, «lo guardavamo un po’ tutte». Sorridono. Chiedo loro come fosse la vita delle giovani donne e ci capiamo subito. «Be’, le teste calde c’erano. Ma noi, noi ci siamo sempre difese».

Però dal ruggito della natura alpina non ti puoi difendere. «Era il ‘64, il ‘65. Il fiume straripò, ci portarono via col canotto, con l’acqua che arrivava fino alla stalla di Debiasi. L’anno dopo, una tromba d’aria, e noi ad andare a scuola fin lassù in piazza Mitra, col freddo anche in casa. Il nostro unico diversivo era l’oratorio Maria Schutz: ci insegnavano un po’ di dottrina, si giocava a calcetto o a biglie. La perpetua, Paolina, ci dava le gallette e il cioccolato fondente. Ci accontentavamo di poco». Le parole di Adriana fanno tornare a Pierina un’immagine preziosa. «Eravamo appena scesi dai masi. Era Natale e mio padre non sapeva come fare per me e per mio fratello Armando, che avevamo sei e quattro anni. Allora prese alcune noci e le avvolse nella carta argentata dei pacchetti delle sigarette. Ce le fece trovare in una specie di nido, anche quello fatto da lui. E per me fu una meraviglia».













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