la storia

Il legionario Olivotto, da Chiusa al Vietnam nell’«inferno verde» 

La storia dei giovani italiani uccisi e dispersi nella battaglia di Dien Bien Phu


Fregona Luca


BRESSANONE. Da 70 anni vagano ancora nella terra dimenticata dei morti e dei dispersi. Un Vietnam meno noto di quello americano ma altrettanto feroce e crudele. Vincenzo Olivotto aveva appena 16 anni quando, una mattina della primavera del 1946, sparì dalla sua casa di Chiusa, convinto da Mario Della Rosa, un ex paracadutista bolzanino di vent’anni, a partire per la Francia. La sua storia, probabilmente, sarebbe andata perduta, se la madre, otto anni dopo, non si fosse rivolta alla redazione dell’Alto Adige per fare un appello ai governi italiano e francese. Voleva sapere se suo figlio fosse vivo o morto.

19 giugno 1954, titolo: «UN LEGIONARIO ALTOATESINO TRA I DISPERSI DI DIEN BIEN PHU».

“In una povera casa di Chiusa una madre piange. Una povera donna invecchiata anzitempo dal dolore, vestita di nero, con un ciondolo di argento al collo in cui figura una piccola fotografia di un alpino, un figlio morto per i patimenti della prigionia, nei lager nazisti. Questa povera donna ci domanda, a mani giunte, se abbiamo notizie del figlio, il ventiquattrenne Vincenzo Olivotto, sergente della “Legione straniera” disperso a Dien Bien Phu. In lei, nelle sue lagrime abbiamo visto il volto, la disperazione angosciosa di tante madri italiane che hanno i figli nella “Legione” dei disperati».

«Era un giorno di primavera del 1946 - raccontò la signora Olivotto al cronista - andavamo a passeggio, con i miei figlioli quando a un tratto Vincenzo, che chiamavamo “il piccolo”, sì è staccato da noi ed è andato vicino ad un giovanotto alto biondo, era il Dalla Rosa, mio figlio lo ha abbracciato, hanno parlato un po’, poi l’altro si è allontanato. Vincenzo mi ha detto che l’indomani mattina sarebbe andato con l’amico, incontrato dopo tanto tempo, fino a Bolzano. Gli ho ricordato il lavoro, gli ho ricordato di non fare sciocchezze, che sapeva quanto ci è necessaria la sua paga per tirare avanti alla meglio, gli ho detto che gli avrei fatto fare un vestito nuovo. Ha alzato le spalle, insofferente, poi non ha più parlato. La mattina si è alzato per tempo, come se dovesse andare al lavoro, mi ha salutato come sempre, ma quando era giù per le scale, mi ha chiamato ancora, “ciao mamma” mi ha detto, e per la strada l’ho sentito ancora che mi salutava. Mi si è stretto il cuore, ma non sapevo che da allora non l’avrei più visto. E sono passati otto anni».

Prigione o Legione

In quegli anni erano migliaia i giovani italiani (si calcola non meno di settemila) finiti a combattere nella paludi del Tonchino.

In massima parte si trattava di migranti economici entrati clandestini in Francia in cerca di lavoro. Varcavano il confine lungo gli stessi sentieri dei contrabbandieri che oggi percorrono i migranti afghani e africani. Il “passo della morte” che già allora si chiamava così, “della morte”, proprio per l’alto numero di ragazzi italiani che precipitavano in burroni e scarpate. Una volta di là, finivano inevitabilmente nelle maglie della gendarmeria. In cella si presentava sempre un sergente della Legione che, mescolando ricatto, minacce e promesse, sciorinava i vantaggi dell’ingaggio: la paga, e, dopo i cinque anni di ferma obbligatoria, la cittadinanza francese e un lavoro nella Francia metropolitana. L’alternativa, sottolineava, era la prigione, il rimpatrio, la miseria. Nessuno spiegava loro che la Francia aveva bisogno di carne da cannone per una guerra di riconquista coloniale dall’altra parte del pianeta: in Indocina. Quando questi ragazzi capivano dove erano finiti, ormai era tardi. Il contratto parlava chiaro: per cinque anni erano di “proprietà” della Francia e della Legione. L’unico modo per tornare indietro era in una bara o disertare (cosa difficilissima e molto rischiosa).

In Italia il dibattito su questo ingaggio di massa era molto accesso. Il Pci imputava al governo di non fare abbastanza per impedirlo. Protestavano le famiglie che rivolevano i loro figli a casa. E protestavano i genitori che ricevevano i ciclostilati da Parigi con l’incipt: “Morto sul campo dell’onore, morto per la Francia...”.

Inoltre, anche se sul territorio italiano l’arruolamento era illegale, nel nostro Paese agivano indisturbati dei reclutatori pagati al “pezzo”, che avvicinavano i ragazzi fuori dai bar e dalle fabbriche, promettendo un futuro meraviglioso nella Légion. Ce n’erano anche in Alto Adige di questi reclutatori. Un paio finirono a processo nei tardi anni ’50. Sulla loro coscienza pesa la vita di diversi ventenni altoatesini uccisi in Indocina.

Tra cinque anni sarò “liberato”

Per sei mesi Vincenzo Olivotto non diede sue notizie. Poi, finalmente, nell’autunno del ’46, alla madre arrivò una lettera dall’Algeria, dove stava svolgendo l’addestramento. Vincenzo chiedeva perdono per “aver fatto una sciocchezza”: “Quando sono partito, ero un bambino, ora mi accorgo del male che ho fatto, ma un anno passa presto”. Da questo momento in poi scrive ogni mese a casa. Informa la madre che la sua ferma sarebbe durata cinque anni, promettendo che una volta “liberato” (questo è il termine per il congedo nella Legione), sarebbe tornato finalmente a casa.

«Allo scadere dei cinque anni- proseguiva l’articolo dell’Alto Adige -, mamma Olivotto, con i fratelli e le sorelle cominciò ad andare a tutti i treni, a tutte le corriere in arrivo a Chiusa, sperando di vedere scendere il figlio, di ritorno dall’Africa. Poi un brutto giorno giunse una breve lettera di Vincenzo che annunciava di aver sottoscritto il reingaggio, per altri tre anni e di essere in partenza per l’Indocina. Per mamma Olivotto, malata di cuore, fu un duro colpo. Dall’Indocina il suo ragazzo diventato, intanto, sergente le scriveva regolarmente, ad aprile (del 1954, ndr) sarebbe scaduta la sua ferma. Scrisse una lettera prima della fine dell’anno in cui disse che sarebbe tornato presto per non lasciarla più: “Io ritornerò da voi, mamma, per sempre, e non andrò più via. In aprile, se non mi succede niente, sarò a casa. Se non mi succede niente, perché non vi nascondo, mamma, che qui i pericoli sono molti”. Dopo quella lettera alla casa di Chiusa sono giunti due biglietti di auguri per Natale e Capodanno (del 1953, ndr). Il sergente Olivotto era a Dien Bien Phu, poi il silenzio».

La mamma, quel giugno del ’54, contattò il giornale dopo aver letto la testimonianza di un ex legionario meranese, Ildo della Torre di Valsassina, rientrato da poco dall’Indocina. Era preoccupatissima, perché della Torre aveva riferito che Mario Della Rosa, l’amico di suo figlio, era stato ucciso nel Delta del Fiume Rosso. «Il mio ragazzo - disse accorata al cronista - mi scriveva sempre, se ora non scrive e perché non può proprio farlo...». Si era già rivolta al console francese in Italia, ricevendo una riposta fredda e burocratica: “Se suo figlio fosse caduto, le sarebbe stato comunicato”. Ma a lei non bastava, voleva avere notizie certe di Vincenzo che doveva tornare a casa in aprile, e che invece non scriveva più dall’“inferno verde”, scomparso nella catastrofe di Dien Bien Phu.

Dien Bien Phu

Dien Bien Phu, una conca in mezzo alla foresta nel Vietnam del Nord, occupata dai francesi nel novembre del 1953 per sbarrare la strada per il Laos al Viet Minh, l’esercito di liberazione guidato da Ho Chi Minh. Il piano fallì: nel giro di poche settimane, i diecimila soldati della piazzaforte (in gran parte uomini della Legione straniera), si trovarono circondati da 50 mila effettivi del generale Giap. Dal 13 marzo al 7 maggio 1954 si combatte la battaglia decisiva, che segnerà la sconfitta della Francia, la divisione in due del Paese sul diciassettesimo parallelo tra il nord comunista e il sud in orbita occidentale, e l’inizio dell’impegno americano nell’area. È molto probabile che Vincenzo sia morto lì.

Morto come morivano quei ragazzi mandati al macello: saltando su una mina, sotto un colpo di artiglieria, per un proiettile in testa o nella pancia. Oppure di malaria, per una ferita in cancrena, o in prigionia dopo essere stati catturati dai viet.

 













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