Psichiatria, in un anno 2.500 pazienti 

La primaria: «È il 2% dei residenti: tra i giovani più patologie associate all’abuso di sostanze che creano grave dipendenza»


di Jimmy Milanese


MERANO. «Le persone si rivolgono a noi quando non sono più in grado di controllare e gestire sofferenza o certe emozioni». A spiegarlo è la dottoressa Verena Perwanger, primaria di psichiatria a Merano, e responsabile del Centro di Salute mentale che copre i Comuni da Resia a Gargazzone, per un totale di oltre 136 mila abitanti, dei quali circa il 2èper cento si è rivolto almeno una volta a uno degli sportelli del “Csm”.

Perché le persone arrivano al Centro di salute mentale?

«Per l'80% dei casi sono spinte dal desiderio di risolvere un qualche problema che non riescono a gestire, mentre nel 20% dei casi sono accompagnati da familiari o in limitate situazioni il trattamento deve essere imposto».

Quali sono i casi più rilevanti?

«La patologia psichiatrica copre un ambito vasto che può andare da semplici stati di ansia fino a disturbi psicotici-maniacali. In particolare, nella popolazione giovane riscontriamo sempre più patologie psichiatriche associate ad abuso di sostanze che creano forme di grave dipendenza».

Esiste un’influenza della società, sullo sviluppo di queste patologie giovanili?

«Certo. Noi parliamo di un modello Bio-Psico-Sociale, proprio perché il disagio ha una base biologica sulla quale intervengono traumi come abbandoni, violenze o, molto spesso, risposte anafettive da parte dei genitori».

I problemi della crescita?

«Si, quando nella adolescenza i rapporti sociali iniziano a cambiare e magari le strategie utilizzate fino ad allora si rivelano disfunzionali. Poi, esiste anche l'influenza di un modello di società altoatesino caratterizzato dal perfezionismo, dove la vulnerabilità non è accettata: insomma devi essere all'altezza di qualcuno o qualcosa».

Il lavoro, se c'è, quando c'è, è un fattore stabilizzante?

«Lo status è importante, perché è un fattore di gratificazione verso se stessi e verso gli altri, anche se registriamo sempre più casi di persone per le quali lavorare non produce motivazione alcuna. In altre parole, registriamo forme di depressione derivata dal rifiuto di lavori, perché non corrispondenti esattamente alle aspettative della persona».

Esistono settori lavorativi dove la probabilità di sviluppo di patologie psichiatriche è maggiore?

«Non direi, semmai, abbiamo riscontrato la presenza di alcune aziende sul territorio dove le condizioni di lavoro producono stress o dove la gestione del personale non è ottimale. Invece, esistono realtà positive come l'amministrazione comunale e, in particolare le Giardinerie: ottimi esempi di inclusione sociale e gestione positiva delle risorse umane».

Qual è l'incidenza dei ricoveri, rispetto alla popolazione meranese?

«Ogni anno, ma bisogna considerare l'area coperta dal Csm, quindi da Resia fino a Gargazzone, circa 2500 persone transitano almeno una volta presso uno dei nostri centri, mentre mediamente sono 330 i ricoveri con una degenza media di 9 giorni. Di questi, quasi 500 pazienti, i cosiddetti alti utilizzatori, presentano patologie gravi che necessitano la presa in carico intensiva, proprio perché il tasso di ricaduta è più elevato. Il 60% dei nostri pazienti si presenta in media 10 volte all'anno presso le nostre strutture, ma alla fine i disturbi si risolvono con cure specifiche».

Dove vengono sistemati i pazienti?

«Di solito, quando non si presentano personalmente, i nostri pazienti arrivano al Centro passando dal Pronto Soccorso. Presso la struttura dell'Ospedale di Merano si stabilisce diagnosi e cura, quindi, un’eventuale degenza. Poi, abbiamo anche la struttura di Casa Basaglia a Sinigo, dove i nostri 24 pazienti vengono seguiti per un reinserimento sociale ottimale. Infine, Tra Silandro e Merano esiste un sistema di alloggi protetti o appartamenti che ospitano in tutto una quarantina di pazienti con patologie che non richiedono ricoveri, ma un accompagnamento da parte del nostro personale».

Il trattamento sanitariooObbligatorio è praticato, a Merano?

«La nostra città ha un vantaggio, avendo avuto un primario, Lorenzo Toresini, allievo di Basaglia, contrario a queste pratiche. Quindi, non abbiamo dovuto disimparare dall'utilizzo terapeutico di queste pratiche anche se, devo dire, gestire i pazienti evitando quanto più possibile la limitazione della libertà personale, richiede uno sforzo organizzativo notevole».

In che senso?

«Semplice. In organico, mancano almeno tre medici e 4 psicologi, ovvero un terzo del personale per garantire il miglior trattamento ai nostri pazienti. Questo implica che il nostro personale è sottoposto a turni massacranti e talvolta dobbiamo sacrificare quel lavoro di rete sul paziente che è l'unica via per garantirgli una guarigione».

Quando si finisce e si esce dal «Tso»?

«Come detto, il Tso è praticato solo ed esclusivamente quando siamo certi che la persona non è in grado di prendersi cura di se stessa, ma nella quasi totalità dei casi, visto che da noi i Tso non superano i 20 all'anno, cerchiamo di convincere il paziente ad un ricovero volontario, garantendogli sempre la possibilità di comunicare con i propri cari. Da questo trattamento si esce quanto prima, e quando paziente e dottore trovano un accordo. Quindi, si prova ad aumentare gradualmente il suo livello di libertà».

Si può guarire da una patologia psichica invalidante?

«Certo. Nel senso che, dopo le cure del caso, il paziente impara a vivere meglio con le proprie vulnerabilità, ritornando ad essere attivo e positivo. Ecco, in questo senso, si, si guarisce».

Il suo più grande successo?

«Araidne, un progetto provinciale dove un gruppo di persona diventa esperto per esperienza e si mette a disposizione di familiari di pazienti o pazienti stessi. Sono pazienti che hanno avuto un percorso di crisi grave, poi superato, che ha fatto formazione e supportato i loro pari e negli incontri di Trialogo. Incontri tra esperti, familiari e utenti, dove chi ha sofferto racconta la sua esperienza».

Insomma, pazienti guariti che aiutano altri a guarire?

«Si, e quando sei di fronte a un tuo ex paziente, ricordi le sofferenze che ha patito, il lungo percorso per rialzare la testa, e lo vedi moderare un gruppo di quaranta persone e contribuire alla discussione, allora capisci di avercela fatta».













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