Il testimone  fra gli antropofagi del Rio de la Plata 

Un giovane mozzo imbarcato su una nave diretta verso una zona inesplorata dell’America meridionale, grosso modo nell’interno del Rio de la Plata, viene catturato da una tribù di indios. I suoi...



Un giovane mozzo imbarcato su una nave diretta verso una zona inesplorata dell’America meridionale, grosso modo nell’interno del Rio de la Plata, viene catturato da una tribù di indios. I suoi compagni di viaggio vengono cucinati e mangiati nel corso di una grande orgia rituale, dove l’antropofagia si mescola alla più spinta promiscuità sessuale. Lui, però, viene risparmiato.

È questo l’innesco de “Il testimone”, romanzo del grande scrittore argentino Juan José Saer, scomparso a Parigi nel 2005, appena ripubblicato da La Nuova Frontiera (trad. Luisa Pranzetti), editore che aveva già dato alle stampe il romanzo qualche anno fa con un titolo diverso, “L’arcano”.

Saer è uno scrittore affascinante, per quanto poco noto da noi. C’è chi lo ha paragonato a Thomas Bernhard o a Samuel Beckett, probabilmente per il suo afflato filosofico, per la sua capacità di andare oltre la trama, i fatti raccontati. C’è un respiro metafisico, nei suoi romanzi, come una sorta di sgomento che noi lettori europei, abituati a spazi più ridotti, troviamo spontaneo ricondurre alle immensità dell’America del Sud, alle distanze vuote (o svuotate) che la nostra mente percorre.

Questo libro ci parla di alterità. Il narratore, il nostro mozzo, non capisce perché è stato risparmiato. Non capisce cosa questa tribù di indios pacifici, quasi conformisti, tranne che in occasione di una periodica festa di sesso, carne umana e morte, vogliano da lui.

La consapevolezza comincia a farsi strada solo molto tempo dopo, quando all’improvviso i suoi benevoli carcerieri lo lasciano andare, lo mettono su una canoa e lo spediscono giù lungo il grande fiume, fino all’ultimo cercando però di richiamare la sua attenzione, come se la sua missione finale fosse quella di ricordarli.

Dopo un’esperienza così, non si può che rimanere spaesati per il resto della vita. E questo è, infatti, anche un piccolo-grande romanzo sullo spaesamento, sul timore generato dai Grandi Determinismi Naturali, a cui nessuno si può sottrarre: il cosmo, con le sue leggi, lo spazio fisico, la geografia, il tempo che scorre, l’estraneità di ciascun essere umano (e ciascuna comunità umana) nei confronti di tutti gli altri (di tutte le altre).

È un romanzo sul bisogno che abbiamo della conferma di uno sguardo altrui, che ci dica ciò che siamo, o che siamo stati, in un certo luogo, in un certo momento, sotto un certo cielo. Ed è un romanzo sul destino del raccontare, che il testimone si porta appresso, una volta ritornato in Europa, e che alla fine assolve attraverso il teatro e la scrittura.

Ma questo è anche un romanzo che riecheggia i libri d’avventura, i romanzi dedicati alle esplorazioni dei Nuovi Mondi, quelli che oggi non sono più tali, perché abbondantemente esplorati, civilizzati, depredati.















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