Il libro

Perché bisogna rileggere "Danubio" di Magris



Danubio, il capolavoro di Claudio Magris, uscì nel 1986. Un’epoca lontanissima dall’attuale. Pensateci: nel 1986 c’era ancora la Cortina di Ferro, a separare i paesi appartenenti all’alveo liberal-democratico da quelli socialisti.

Il libro di Magris ottenne un successo strepitoso, di critica e di pubblico. “Un libro che difende la memoria storica dell’Europa”, lo definì l’autore. A tanti anni di distanza, quali sono i motivi che possono spingerci di nuovo a leggerlo, a parte quello ovvio di aumentare la nostra erudizione?

Innanzitutto, direi la lezione di stile. “Danubio” è un coltissimo romanzo di viaggio, che per alcuni aspetti prefigura certa autofiction contemporanea. Se Magris avesse dismesso in maniera maggiormente decisa i panni dell’accademico, se avesse parlato più di sé, dei suoi compagni di avventura, delle modalità del suo andare, facendo un po’ il Carrère della situazione, insomma, la sua attualità sarebbe persino maggiore.

Poi c’è il fascino dei luoghi. In queste pagine passiamo da Sigmaringen a Regensburg, da Vienna a Belgrado, da Sighisoara a Bucarest… In sintesi, dalla Selva Nera al Delta del Danubio, fiume che Magris percorre da Ovest a Est, mentre più recentemente Nick Thorpe lo ha percorso in senso contrario, da Est a Ovest, nella direzione seguita anche dai migranti lungo la “rotta balcanica”. Il cammino è quindi attraverso un’entità geopolitica multipla e sfaccettata, che all’epoca della pubblicazione del libro era già profondamente cambiata rispetto ai “tempi d’oro” della monarchia asburgica, e che il grande germanista fa rivivere senza nostalgie fuori luogo, ma con affetto e a volte ammirazione. Quest’entità è la Mitteleuropa, ovviamente. Sulle sue ceneri, dopo la caduta dell’Impero Austroungarico, erano nati nel frattempo nuovi stati, poi devastati dalle guerre, dalle dittature, e quindi divisi dalla barriera che separava il mondo comunista da quello capitalista. Una barriera che di lì a pochi anni sarebbe a sua volta crollata, anche se Magris è più interessato alla letteratura e alla cultura in generale che all’attualità politica, che infatti emerge solo a tratti, ad esempio quando esprime qualche timore per il futuro della Jugoslavia (che di lì a poco sarebbe “esplosa”) o quando confessa una curiosa ammirazione per le conquiste sociali realizzate dal socialismo bulgaro.

In compenso ad ogni pagina scopriamo qualcosa: autori di cui ignoravano l’esistenza, assieme ad altri più noti, da Céline a Kafka, da Celan a Heidegger, da Stifter a Grillpanzer e così via. E poi vicende, popoli, luoghi i cui contorni sfumano nella leggenda, che potrebbero popolare una canzone di Battiato (i Sassoni di Transilvania, le stazioni di villeggiatura sui Tatra, persino il fianco della collinetta zuppo d’acqua da cui nasce, o così pare, il Danubio).

Siamo al cuore della nostra identità di europei, insomma. Al tempo stesso, però, la Mitteleuropa di cui ci parla Magris oggi sembra ancora più lontana, anche se l’Unione Europea ha portato molte delle realtà menzionate nel libro sotto lo stesso ombrello. Chi, come il sottoscritto, visitò la Romania di Ceausescu nello stesso anno in cui “Danubio” venne pubblicato, può testimoniarlo. Il comunismo, limitando al minimo i contatti con un Occidente che viaggiava ai 200 all’ora, aveva messo certi paesi come sotto-vetro, dando a volte al viaggiatore la sensazione di stare facendo un viaggio nel tempo, non solo nello spazio (un viaggio all’indietro). Questa sensazione, oggi, nell’era della Globalizzazione, non si dà più con la stessa intensità. Ma naturalmente questo non significa nemmeno che ogni luogo sia diventato uguale a ogni altro, che abbia perso il potere di sorprenderci.

 













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