Rimboccarsi le maniche per vivere La saga familiare che iniziò in miniera 

La testimonianza. Luigi Buzzini lascia Milano negli anni Venti per lavorare a Monteneve. L’amore per Elisabeth lo porterà a integrarsi perfettamente I figli in val di Vizze a pascolare le capre o nelle case altrui a tenere i bambini, lo strazio per la morte del piccolo Giuseppe: il racconto del nipote Antonio


Sara Martinello


Vipiteno. Questa storia comincia nella scia di povertà lasciata dalla Grande guerra, nelle serrate annegate nel sangue, nel sollievo che le bastonate delle camicie nere diedero ai padroni. Mentre le piazze si riempivano di braccianti e operai, molti cercavano altrove il lavoro che avrebbe dato loro una casa e una famiglia. In riva al naviglio Martesana, a inizio anni Venti Luigi Buzzini si apprestava a partire per una terra nuova. Il lavoro duro non faceva paura a nessuno, nella fatica ci si nasceva e ci si moriva. Luigi non poteva immaginare, allora, che avrebbe dato inizio a una saga familiare che il nipote Antonio Buzzini ha raccontato a Caterina Fantoni, dipanando il gomitolo dei ricordi sulle pagine di “Vipitenesi. Storia di una comunità dalle origini al dopoguerra” (ed. Artestampa, 2020).

Un lombardo a Monteneve.

Una saga? Come quelle dei re e degli eroi? Sì, una saga. Se una storia somiglia a tante altre diventa speciale proprio per questo, perché è la storia di tutti noi. Questa comincia a Inzago, paese della città metropolitana di Milano, dove nel 1892 nasce Luigi Buzzini. Non sappiamo molto della sua giovinezza: «Probabilmente fece la guerra, ma è solo un’ipotesi», mi racconta oggi il nipote Antonio Buzzini, agente della Questura in pensione. «Dopo la guerra però andò a lavorare alla miniera di Monteneve. Probabilmente conobbe lì la sua prima moglie, Anna Kamprager. So che nella miniera lavoravano anche donne, erano addette alla mensa e allo smistamento dei minerali». Il museo provinciale di Monteneve illustra gli otto secoli dell’attività mineraria nel giacimento di argento. Secondo la storia, Luigi ci passa due o tre anni. Nella saga, lui e i suoi compagni sono lì da otto secoli, dal villaggio più alto d’Europa scendono i chilometri nel ventre nero della montagna. L’inverno dura nove mesi, l’inferno invece non chiude mai.

L’integrazione.

Nel 1923 Luigi lascia Monteneve e si trasferisce a Vipiteno, dove lavora alla segheria Saila. È rimasto vedovo, così nel ‘30 si risposa, anche stavolta con una giovane donna di lingua tedesca, Elisabeth Steidel, nata a Innsbruck nel 1899, probabilmente in Italia per motivi di lavoro. Vivono dapprima in vicolo del Giovo, all’angolo con via Città Nuova. Hanno quattro figli: Rosa nasce nel 1931, Giorgio l’anno successivo, Carlo nel ‘34, Giuseppe nel ‘35 e Maria nel ‘38. «In casa parlavano tedesco, mio padre Giorgio e i suoi fratelli erano perfettamente bilingui». I genitori di Antonio si conobbero negli anni Cinquanta, quando sua madre, Rita Tarsetti, da Ancona venne a Vipiteno in visita al fratello Eugenio. «Mia madre avrebbe desiderato imparare il tedesco, ma con quattro figli, senza i corsi di lingua di oggi, di tempo non ne aveva proprio. Non so come avesse fatto mio nonno a impararlo così bene. Fu grazie a questa sua buona inclinazione che si integrò alla perfezione nel tessuto sociale cittadino». Gli propongo l’ipotesi di una disposizione al plurilinguismo nata in un contesto dialettofono, quello di un paese del Milanese, con la costante compresenza – a scuola, sui mezzi di comunicazione, nelle istituzioni – dell’italiano. Da considerare anche il ‘15-‘18, che per tanti ha segnato un primo, a volte scioccante contatto con l’italiano.

Anni difficili.

Dopo pochi anni la famiglia si trasferisce in via Ralser, «in quella che era chiamata “la casa dei poveri”, gialla, alta, con tanti alloggi», spiega Antonio. Elisabeth e Luigi hanno a cuore la salute di Giuseppe, il quartogenito, un bambino fragile che guai a chi lo tocca. È la malattia a portarselo via nel 1942, a sette anni. Elisabeth è straziata dal dolore. «Era disperata. Zia Rosa mi ha raccontato che rischiò di impazzire dal dolore e che una notte andarono insieme al cimitero. Mia nonna, poveretta, si era messa a scavare con le mani lì dove c’era la tomba del piccolo Giuseppe fino a vedere la bara. Poi ricoprirono tutto con la terra». Elisabeth morirà nel 1974. «Avevo appena 14 anni e il tedesco non lo parlavo così bene, ma ricordo la sua risata. Era una donna spiritosa, di carattere, allegra». Che cosa non facciamo, per cercare di ricucire insieme i pezzi del cuore. Per andare avanti. Perché tre anni più tardi Luigi muore in un incidente, ed Elisabeth deve darsi da fare ancora di più. Da Inzago arriva a Vipiteno Maddalena, sorella del defunto Luigi. Giorgio ha 13 anni e già lavora come manovale: pian piano diventerà muratore, poi piastrellista, un artigiano molto apprezzato in tutta la valle Isarco. Con Rosa e Carlo l’estate la passa a Prati di Vizze e nelle vallate vicine a pascolare le capre. Antonio prosegue il racconto. «Ricevevano vitto, alloggio e un vestito. Un vestito l’anno, zia Rosa me lo ripeteva. E per mia nonna erano tre bocche in meno da sfamare. Si andava con la gavetta dai frati cappuccini o in caserma, zia Rosa faceva la babysitter, e con zia Maria lavorò anche a Brennero, in un albergo. Una volta zia Rosa venne a sapere che una famiglia di Trento cercava una babysitter bilingue, allora ci andò e ottenne il lavoro». Oggi si potrebbe definire “ragazza au pair”: sono tante le giovani donne con competenze specifiche che dopo la maturità o dopo la laurea passano uno o più anni all’estero. Zia Rosa da Trento non è più tornata: «Si sposò lì e pian piano dimenticò la lingua imparata in famiglia, anche se le preghiere le recita ancora oggi in tedesco».

La famiglia di Giorgio.

Nel 1956, dicevamo, Giorgio si sposa con Rita. Il primo anno di matrimonio lo passano nella casa di via Ralser, poi si trasferiscono in una casa antica in via Alta. Lì si parla italiano e i quattro bambini fanno le scuole italiane. Ma mica per chissà quale identitarismo, no: la ragione è che Rita, pur desiderando fortemente di imparare la prima lingua del marito, di occasioni per studiarla non ne ha. E l’iscrizione alla scuola italiana diventa quasi obbligata. Antonio racconta gli aneddoti del padre: «Da piccoli lui e lo zio Carlo, che erano balilla, furono mandati al lago di Garda per un certo periodo, forse un addestramento. Carlo una notte fece la pipì a letto: be’, il giorno dopo gli ordinarono di girare col lenzuolo in mano finché non fosse stato asciutto. E poi la visita di leva a Bolzano: Piero Rossi, il figlio del macellaio, scommise che se mio padre si fosse tuffato di testa dal trampolino da 10 metri nella piscina dove si allenavano Giorgio Cagnotto e Klaus Dibiasi lui avrebbe offerto la cena a tutto il gruppo dei coscritti. Pugni serrati e braccia tese, mio padre si tuffò. E anni dopo mi disse che in quel tuffo, quei dieci metri, gli era sembrato di percorrere un’eternità». La brezza dell’Adda, gli aliti d’aria nei cunicoli della montagna, la polvere della segheria, la terra di Giuseppe, il belato delle capre di Vizze. Tutto nei dieci metri in cui la storia restò sospesa.













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