Persecuzioni nazifasciste e famiglie smembrate nella Merano tra le guerre 

Storia degli ebrei. La comunità fu decimata e i beni furono venduti a prezzi irrisori


Jimmy Milanese


Merano. Tornare indietro nel tempo, per scavare quello che la storia racconta di una piccola città come Merano, significa necessariamente capire come un territorio relativamente limitato abbia vissuto gli importanti eventi storici che hanno segnato il Novecento.

Ad esempio, all’inizio del secolo scorso la popolazione meranese, che attualmente supera le 41 mila unità, è scesa dai quasi 24 mila cittadini nel periodo prebellico ai 21 mila registrati nel 1921. Una diminuzione demografica motivata dalla violenza delle ostilità e dalla fuga di molti ospiti internazionali che avevano eletto la nostra città come luogo di residenza. Quasi sorprendentemente, una diminuzione demografica così importante non si è registrata nemmeno a cavallo della Seconda guerra mondiale, quando però Merano fu protagonista di una delle pagine più buie della recente storia europea.

L’antisemitismo.

Infatti, dall’autunno del 1938, con l’entrata in vigore delle leggi razziali fasciste, anche in tutto l’Alto Adige iniziarono le persecuzioni contro gli ebrei, nonostante alcune famiglie già mesi prima avessero deciso di lasciare l’Italia, allarmati dal clima antisemita che stava dilagando in tutta Europa. Molte di quelle famiglie meranesi tornarono in Israele o si rifugiarono in Svizzera, come nel caso di Leopoldo Bermann il quale nel settembre del 1938 a sei anni lasciò la città con la sua famiglia per ritornarci solo l’anno scorso, quasi novantenne. Sulla consistenza della comunità ebraica a Merano è possibile essere alquanto precisi, proprio perché poco prima di varare le leggi razziali fu lo stesso Mussolini a ordinare un censimento della popolazione di origini ebraiche in Italia. Dalla rilevazione del 22 agosto del 1938 apprendiamo che a Merano vennero censiti 909 ebrei tra i quali 155 con passaporto italiano e 754 stranieri, alcuni dei quali provenienti dalla Germania dove già nell’aprile del 1933 era partita la campagna antisemita promossa da Hitler.

Le persecuzioni.

Le persecuzioni che aprirono la strada alle deportazioni vennero sostenute da una violentissima campagna stampa antisemita. Vennero stabiliti il divieto per gli ebrei di ricoprire cariche pubbliche e l’obbligo di vendita delle loro proprietà, molto spesso a favore di meranesi che a prezzi stracciati si sarebbero aggiudicati vere e proprie fortune capaci di cambiare le sorti delle loro famiglie. Da non scordare anche il congelamento dei conti bancari intestati agli ebrei, facilitato dalla presenza in città della D&J Biedermann, gestita direttamente da una dirigenza ebrea. Somme finite nella disponibilità del commissario supremo Franz Hofer e mai più recuperate ma che consentirono al Gaulaiter del Tirolo di rifarsi una vita e vivere a lungo sotto falso nome. Terminate le ostilità belliche, nonostante i contenziosi accesi dagli eredi dei deportati, facendo leva sulla scarsa conoscenza della portata dell’Olocausto, il Tribunale di Bolzano non fece fatica a considerare regolari quei passaggi di proprietà forzati e spesso conclusi a prezzi inferiori di almeno due terzi rispetto al valore di mercato del bene venduto.

Notte drammatica.

La deportazione in massa degli ebrei residenti che a Merano venne organizzata nella notte tra il 15 e il 16 settembre del 1943. Una stima per difetto calcolata in almeno 22 i meranesi deportati solo in quelle ore verso il luogo della loro morte, in particolare con destinazione al campo di concentramento di Auschwitz. Lo spiegano bene le trentatré pietre d’inciampo posizionate sui marciapiedi della città di fronte al luogo nel quale quel crimine venne commesso in nome di un odio ben presente anche dove non si sprigionò in termini così tragici. Tenuti rinchiusi per ore all’interno di un edificio, in prevalenza anziani e infermi, persone “colpevoli” di apparire nell’elenco del 22 agosto vennero deportate al campo di Reichenau nei pressi di Innsbruck dove alcune di loro persero la vita, mentre chi sopravvisse al viaggio finì ad Auschwitz. Una cattura, quella dei ventidue ebrei, effettuata casa per casa nelle ad opera delle SS in collaborazione con il Servizio di sicurezza e ordine formato da locali di madrelingua italiana e tedesca.

Un grido di dolore.

Di tutte queste persone indicate nei registri dei campi di concentramento e di altre sfuggite alla maniacale precisione nazista nella documentazione burocratica in parte andata persa o illeggibile, solo una si salvò. Catturata a Merano quel giorno, Valeska Knapp Hoffmann riuscì a evitare la deportazione finale ad Auschwitz grazie all’intercessione del consolato svizzero. Una voce che si trasformò in grido di dolore, quella di Hoffmann, che nell’immediato dopoguerra venne molto spesso messa a tacere, perché la questione etnica nel frattempo scoppiata aveva deciso che la responsabilità per le deportazioni degli ebrei erano da attribuire alla presenza di una potenza straniera in Alto Adige.

Impossibile raccontare la storia di tutti quei meranesi deportati le cui famiglie e i cui avi già a partire dal 1873 avevano deciso di stabilirsi in città tanto da acquistare un terreno sul quale oggi sorge il cimitero ebraico nel quale riposano decine di persone che hanno contribuito in modo determinante a creare la fortuna di questa Merano. La popolazione ebraica residente in città venne decimata con l’inizio delle persecuzioni e tragica sorte venne riservata a quei trentatré cittadini i cui nomi sono impressi nelle pietre d’inciampo sparse in città, solo recentemente restaurate.

Due storie da ricordare.

Tra le tante storie che è possibile raccontare, ne scegliamo due. Quella delle sorelle Geltrude e Meta Elkan, originarie di Königsberg, oggi Kaliningrad, exclave russa immersa nel mar Baltico, arrivate a Merano nel 1910. Quella notte tra il 15 e il 16 settembre del 1943, quando la città si trasformò in una caccia all’ebreo con i cittadini barricati nelle case a spiare dalle finestre quello che accadeva in strada, avendo intuito quale sarebbe stata la loro sorte le due sorelle decisero di togliersi la vita. Il loro drammatico proposito fu stroncato sul nascere dagli agenti della Gestapo che le arrestarono. Dopo un periodo di detenzione alla Casa del balilla di via Otto Huber 36, le due sorelle vennero deportate al campo di sterminio di Auschwitz dove morirono nelle camere a gas il 7 marzo del 1944.

La stessa sorte capitò ai coniugi Ludwig Balog e Josefine Freund, catturati anche loro nel corso di quella drammatica notte. Balog, di origini ungheresi, a Merano aveva fatto costruire dall’ingegner Pietro Delugan il sanatorio di Villa Balog, edificio che in seguito sarebbe diventato l’Hotel Augusta. L’imprenditore di origini ungheresi aveva acquistato anche Villa Susi, l’edificio di fronte a quello che per anni è stato l’Hotel Augusta. Alla cattura sfuggì Susanne, figlia venticinquenne che nel frattempo aveva riparato a Budapest. Contrariamente alla sorte di altri possidenti ebrei, dopo la fine delle ostilità belliche Susanne Balog tornò a Merano e riuscì almeno a rientrare in possesso delle proprietà di famiglia completamente depredate dalle SS nel corso della guerra, ma non ottenne mai quel risarcimento richiesto e negato dallo Stato italiano, perché nel frattempo la donna aveva acquisito la nazionalità britannica. Nonostante questo, nel 1951 Susanne Balog destinò in beneficenza le proprietà meranesi di famiglia, chiedendo che almeno Villa Balog non cambiasse nome «nel ricordo di mamma e papà», scrisse in seguito. Ancora oggi, quelle due ville sono lì, una di fronte all’altra, e all’entrata di Villa Susi, sul marciapiede, due pietre d’inciampo ricordano quello che accadde a Josefine e Ludwig la notte tra il 15 e 16 settembre del 1943 e il gesto di generosità della figlia. Non calpestate le pietre d’inciampo!













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