L'intervista

Michele Comberlato: «L’intelligenza Artificiale ci aiuta ad individuare i tumori al colon»

Il medico, due volte presidente dell'Ordine, il 31 marzo ha lasciato la guida di Gastroenterologia dopo quarant’anni: «Mi ci vorrà del tempo, con il cuore e la testa sono lì. In medicina i progressi sono eccezionali, abbiamo farmaci straordinari»

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Valeria Frangipane


BOLZANO. «Non so dove siano finiti questi quarant'anni, mi sembra di aver iniziato ieri. L'ospedale? Per me è sempre stato casa». Michele Comberlato, 67 anni, per due volte presidente dell'Ordine dei medici, il 31 marzo ha lasciato la guida del reparto di Gastroenterologia del San Maurizio, oggi nelle mani di Piercarlo Farris.

Volendo poteva rimanere?
«Sì, fino a 70, ma la comunicazione in merito è stata tardiva, mi ero già riorganizzato la vita e costruito un percorso di uscita».

Distacco doloroso?
«Sì, ci vorrà del tempo, con la testa e con il cuore sono lì».

E adesso?
«Qualcosa farò. Ho speso una vita ad imparare a fare cose importanti per i pazienti, le metterò al servizio di qualcuno. Intanto mi prendo una lunga vacanza».

Medicina, la passione di sempre?
«No, scelta ragionata. Certo mia moglie Cristina, medico anche lei, mi ha dato una bella spinta. Finito il classico, ho fatto i primi due anni di Medicina a Padova e poi a Verona. Tesi con il professor Giorgio Dobrilla. Aveva grandi competenze, capacità di guida, di leadership, era rispettoso dei ruoli, gli devo tanto. Ci stimolava, non era geloso. Volevamo andare in giro ad imparare nuove tecniche, nuove terapie? Ci mandava. Quando tornavamo però ci diceva "hai imparato, adesso fammi vedere". Abbiamo avuto anche scontri. Mi diceva "quando esci spegni la luce. L'ospedale è come casa tua". Mi ha insegnato il senso di partecipazione alla gestione comune di uno spazio importante. "Il tuo lavoro qui? Devi farlo bene". Dalla tesi con lui il passaggio alla "gastro" è stato automatico. Sono entrato in ospedale a 25 anni, come studente, lavoravo gratis in reparto. Poi la specialità, altri 4 anni a Verona».

Come è cambiata la Medicina?
«Ho assistito ad una rivoluzione totale. Oggi facciamo cose inimmaginabili. Penso alla gestione delle patologie complesse con farmaci biotecnologici. Colite ulcerosa, malattia di Crohn, sono il mio pallino... e quando ho iniziato c'era solo cortisone, adesso abbiamo varie molecole con le quali cambiamo la vita dei pazienti».

E la diagnostica?
«Ho iniziato a lavorare con gli strumenti endoscopici a fibre ottiche. Ci guardavi dentro e le fibre si rompevano, adesso è tutto in video, alta definizione, vedi molto meglio e riconosci molto meglio. Oltre alla capacità diagnostiche sono comparse modalità terapeutiche endoscopiche che non c'erano. Come strumentazione siamo messi bene sia dal punto di vista endoscopico che ecografico. A Bolzano facciamo quello che si fa in tutti gli ospedali più qualificati a livello internazionale. La nostra diagnostica è avanzata. Abbiamo due sale endoscopiche che hanno il modulo per applicare l'intelligenza artificiale all'endoscopia».

E come funziona l'intelligenza artificiale?
«
La macchina conosce migliaia e migliaia di immagini di polipi. Accumula dati e continua ad imparare. Mentre fai l'endoscopia e ti muovi lungo le lunghissime curve del colon quando riconosce una piccola protuberanza sulla mucosa ti mette un quadratino luminoso. Vedi il flash e guardi meglio e vedi un polipetto che magari ti sarebbe sfuggito. Tecnologia meravigliosa. Abbiamo partecipato ad un importante studio internazionale con sei centri, quattro europei, uno "extraEU" e noi... avevano bisogno di numeri e noi facciamo tanti esami di elevata qualità. Così, su questa esperienza, dopo il primo studio è partito il secondo».

C'è dell'altro?
«Sì, una volta era inimmaginabile asportare un polipo del colon di 4/5 centimetri, adesso li asportiamo endoscopicamente. Prima mandavamo il paziente in sala operatoria. È stata rivoluzionata anche tutta l'endoscopia epatica, biliare e pancreatica. Si è trasformato il trattamento delle epatiti, delle cirrosi ecc. I pazienti grazie a farmaci avanzati e trattamenti mirati hanno una qualità di vita prima impensabile. Oggi l'epatite virale la guarisci. In ospedale una fetta della nostra attività è dedicata al fegato, poi ci sono gli ambulatori specialistici su pancreas, piccolo intestino ecc. E sono solo alcuni esempi. La medicina non si ferma più. Se quel trattamento non funziona per il tuo paziente hai una seconda, una terza scelta».

Quanti siete in reparto?
«Dodici, più due specializzande toste. Mancano infermieri, siamo costantemente sotto organico».

Prestazioni, che numeri avete?
«Facciamo circa mille ricoveri l'anno, 950 accessi di day hospital e viaggiamo con circa 9.000 esami endoscopici ed ecografici l'anno. Abbiamo solo tre sale endoscopiche - una è chiusa dai tempi del Covid - ma il nuovo servizio di endoscopia è in via di ultimazione negli spazi dell'ex Pronto soccorso».

I tumori sono in aumento?
«Aumentano perché facciamo più diagnosi. La gente quando ha qualcosa va a farsi vedere e tra diagnostica di laboratorio, macchine pesanti radiologiche (Tac, risonanza, Pet) ed ecoendoscopia, che eseguiamo noi, riusciamo ad inquadrare la malattia precocemente. E intervenire subito».

Lo screening al colon resta basso, alle lettere d'invito dell'Asl risponde poco più del 30% dei cittadini. Perché succede?
«Siamo una terra poco propensa alla prevenzione sanitaria, penso anche alle vaccinazioni. Nella mia vita ho fatto tre colonscopie. La resistenza allo screening è la paura di sentirsi dire che c'è qualcosa che non va. Ma se lo sgradevole è affrontabile e gestibile, non si deve aver paura. Spesso il tumore al colon parte da un polipo che all'esame istologico risulta maligno. Se lo togliamo, il problema è risolto. Poi certo la sua vita sarà divisa in due. Prima la persona viveva serena, poi vivrà di controlli. Ma se questo consentirà di fare una vita normale e di invecchiare bene, allora non c'è storia».

La Sanità naviga acque agitate…
«Non è mai una partita facile. L'assessore Hubert Messner ha vissuto in ospedale e conosce molto bene la situazione. Abbiamo grandi risorse, la grande opportunità di poterci gestire in autonomia e strutture capillarmente diffuse sul territorio ma fatichiamo a mettere a terra progetti concreti a medio, lungo percorso e per fare questo dovrebbero fidarsi un po' di più di noi medici».

Per esempio le liste d'attesa?
«L'approccio Asl è obsoleto e poco scientifico. Non è aumentando l'offerta che risolvi il problema. Devi controllare la domanda. Devi fare la prestazione giusta, al paziente giusto, nel momento giusto. Abbiamo dei criteri per cui il paziente va dallo specialista con priorità variabile a seconda dell'importanza del problema. E va costruita una solida collaborazione tra medici di famiglia e ospedalieri. Perché una grande parte di quello che oggi viene inviato come specialistico in ospedale non dovrebbe arrivarci».

C'è collaborazione tra medici?
«Non ci sono incontri strutturati, se non a livello individuale. Avevo proposto incontri periodici. I colleghi della Medicina generale hanno strumenti e competenze, ma occorre stabilire un percorso condiviso. Altrimenti mandiamo tutti i pazienti alla Tac».

Cosa le resta dopo 40 anni a contatto con i pazienti?
«Restano la ricchezza dei rapporti umani, i casi più difficili, quelli sui quali sto pensando anche adesso. Le decisioni difficili. C'è una bella frase di Umberto Veronesi, che a proposito di decisioni mediche, parlava di "dolorosa solitudine del medico". Ed è così. Ogni paziente ha la sua storia. Ti colpiscono tutti. Ho sempre detto ai giovani "non dimenticatevi mai che chi viene da voi ha paura". Dovete gestire il lato clinico e quello umano. Oggi i giovani medici sono molto preparati. Entrano in rete e trovano il mondo, io alla loro età viaggiavo su libri e fotocopie. Lasciare il mio ospedale? Difficilissimo. Il cuore batte ancora lì».









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