L’intervista

L'alpinista Nasim Eshqi: «Via dall’Iran, in parete per dare voce alle donne. Il vero coraggio è il loro»

L’atleta è arrivata a Bolzano per raccontare la rivoluzione delle giovani generazioni e presentare il libro «Ero roccia, ora sono montagna» e il film «Climbing Iran». Ospite della nostra redazione con al compagno Sina Heidari, rifugiato politico come lei, ha fatto registrare il pienone al teatro di Gries

INCONTRI Ospite del Cai Bolzano Nasim Eshqi, libera di arrampicare


Sara Martinello


BOLZANO. «Per me non è difficile parlare con le persone. Ma vedo che nell'occidente c'è una gran paura di esprimere le proprie idee. Si ha paura di essere etichettati, si teme il giudizio altrui. È una paura che si impara molto presto, fin dalla scuola». Nasim Eshqi ha la voce ferma di chi quella paura non può proprio averla. Non solo perché è una pioniera dell'arrampicata sportiva all'aperto, una scalatrice che ha aperto più di cento vie fra Oman, Emirati arabi uniti, Armenia, India, Turchia e Georgia.

Il coraggio, dice, «è delle nuove generazioni, delle ragazze iraniane che strappano la foto dell'ayatollah e la calpestano, delle donne che stanno insegnando al mondo che dobbiamo batterci per i nostri diritti». A Bolzano con il suo libro «Ero roccia, ora sono montagna» e con il film «Climbing Iran», venerdì 12 aprile Nasim Eshqi è stata ospite della redazione dell'Alto Adige insieme al suo compagno Sina Heidari, rifugiato politico come lei, con il presidente del Cai Bolzano Maurizio Veronese e Francesca Carlet della commissione cultura del Cai Bolzano. In serata ha fatto registrare il pienone al teatro di Gries.

Come è andato l'incontro con le scuole?
È stato di grande impatto avere davanti a me centinaia di studentesse e studenti ad ascoltare la mia storia. Ho accettato con piacere l'idea di Maurizio e Francesca. Cambiare idea, aprirsi agli altri, con il passare degli anni diventa sempre più difficile. Perciò il contatto con le nuove generazioni è importante.

Quale consapevolezza vede nelle persone?
I giovani sono molto reattivi. Si interessano, fanno domande. Aiuta molto il fatto che io sia una sportiva, anche se poi, portando in giro il libro e il film, vedo che non si tratta solo di raccontare quell'esperienza. Si tratta di entrare in empatia con gli altri per conoscere condizioni di vita differenti. In entrambe le direzioni. Altrimenti si penserebbe che partiamo tutti dallo stesso punto, che abbiamo lo stesso privilegio.

Come ha iniziato ad arrampicare?
In Iran ci sono molte montagne dove si pratica comunemente l'escursionismo. Andare in parete però era una novità. Nessuno conosceva questo sport, la televisione non ne parlava. Avevo 23 anni e tanta voglia di mettermi alla prova. Pensai di entrare in un sogno. Iniziai a viaggiare, a scoprire la differenza tra l'Iran e il resto del mondo.

Lei è la sola donna iraniana a praticare l'arrampicata all'aperto. Ha aperto molte nuove vie. Che effetto le fa?
Non sono l'unica, ora ci sono molte altre donne come me. Ma non mi sono mai vista come "la prima". Preferisco pensare di aver aperto la strada ad altre donne, di aver dato l'esempio di un'alternativa possibile.Nel libro racconta delle resistenze della sua famiglia rispetto a quella che poi è diventata la sua professione.In Iran nasci e cresci in gabbia. La concezione della donna è molto vecchia e copre vari aspetti: la verginità da preservare, il matrimonio, avere figli. L'anticonformismo non è concesso. Mia madre camminava sull'altro lato della strada, e se in casa c'erano ospiti, era meglio se me ne stavo nella mia stanza, o erano guai. I miei genitori mi dicevano: "Non ti pagano? Allora sposati, che cosa aspetti?". Vedevo in tutto questo molta ipocrisia. Mi arrabbiavo, cercavo il confronto. Ma a una donna in Iran non è concesso di essere combattiva, e chi lo è si ritrova isolata.

Le donne iraniane che cosa pensano del suo lavoro?
Noi donne iraniane condividiamo molte difficoltà, ed è importante che qualcuna di noi ne parli al mondo. Sanno che io parlo anche di loro e che non le dimentico. Per me il coraggio è delle nuove generazioni, le ragazze che strappano la foto dell'ayatollah e la calpestano. Basta una frase contro l'ayatollah per andare incontro alla pena di morte. Le donne iraniane, le nuove generazioni, stanno insegnando al mondo intero che dobbiamo batterci per i nostri diritti.

C'è qualcosa che le manca del suo Paese?
Mi manca la cultura, il modo di comunicare tra le persone. Mi manca la lingua, le barzellette che funzionano solo in farsi. La chiamano nostalgia, ma è qualcosa di più viscerale. E naturalmente mi mancano la natura e le montagne.

Quale cambiamento vorrebbe per l'Iran? Quale democrazia?
Certamente vorrei un rinnovamento, ma nessun cambiamento è gratuito. Il prezzo è alto. E se non è una generazione a pagarlo, il debito ricadrà sulla generazione successiva, e così via. Non ritengo nemmeno democratico che una persona di religione musulmana possa venire in Europa, pagare e vedere realizzato un centro islamico, se il centro islamico è un luogo dove le donne non sono riconosciute come esseri umani. La libertà della religione dovrebbe essere l'uguaglianza delle persone, il sostegno reciproco. In Iran è intesa come libertà di uccidere le donne, di violarle, di mutilare i loro organi genitali.

Qui comunque resiste un modello maschile e patriarcale.
Sì: le donne si ritrovano a dover stare alle regole che hanno scritto gli uomini. Vanno riscritti i rapporti, in direzione della parità. Poi, qui non sarò uccisa per quel che dico. Ci sono più possibilità per tutte e tutti di autodeterminarsi.

Con Sina abbiamo un progetto, "When the mountains speak". Quando apriamo nuove vie, diamo loro nomi in omaggio ai movimenti per i diritti umani. La prima è stata "Rise up for human rights" a Chamonix, la seconda "Women-life-freedom" nelle Dolomiti di Fassa, nel 2023. La visibilità che ho raggiunto mi permette di darne a chi non ne ha. Per me non è difficile parlare con le persone. Ma vedo che qui si ha paura delle critiche e per questo si evita il più possibile di esprimere le proprie idee. È una paura che si impara fin dalla scuola.

Da dove viene il titolo del suo libro?
Ero come una pietra. Me ne stavo in un angolo, invisibile. Ma non mi sono fatta scalfire. Ho studiato, ho imparato dallo sport, finché gli altri non mi hanno vista. Così, quando me ne sono resa conto, mi sono chiesta che fare. La risposta è stata: parlerò a chi oggi è roccia. Il libro è la mia storia di bambina e ragazza a Teheran, il velo, il fingermi maschio per poter continuare a praticare la boxe. La scoperta - all'università - di ciò che poteva significare, fuori dall'Iran, essere una campionessa sportiva. E quel magnifico, puro senso di libertà che provavo e tuttora provo in parete.

Sina Heidari, qual è il suo punto di vista?
Siamo due rifugiati politici cittadini del mondo, e Nasim si batte per i diritti umani. Le rivendicazioni delle donne sono fondamentali per una società più giusta, a vantaggio delle donne come degli uomini. Il governo iraniano pretende dagli uomini il controllo sulle donne. Perciò, quando un uomo rompe le regole, quando cerca la parità, è un fallimento per il governo.













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